Una delle ragioni per cui non mi sono mai tatuata nulla sul corpo potrebbe essere la faccenda della lettera. Il problema del farsi un tatuaggio non è solo decidere cosa. Ma anche, o soprattutto, accettare il poi. Essere pronti ad annuire anche nel caso peggiore. Saper riconoscere il fatto che andrà a finire in un certo modo. O, quantomeno, che POTREBBE andare a finire in un certo modo. Perché prevedere una situazione dà sempre un vantaggio. E perché qualsiasi cosa possa essere e ovunque la possa mettere, di quel tatuaggio, presto o tardi, me ne pentirò.
Succederà. E succederà perché pentirsi è una delle regole.
Fai una cosa. Vai avanti. Ti fermi, ti volti, la rivedi.
Scappi.
*
La volta della lettera non ha fatto eccezione. Quella volta però non è stata una mia idea. Infatti A) io non ho mai idee pragmatiche, B) io non ho idee risolutive e C) io non so scassinare una cassetta delle lettere.
La mia amica Lana invece, lei aveva un sacco di doti nascoste. Era piena di spunti e tacita irriverenza. Amava gli Iron Maiden. Guardava Gilmore Girls (è lei che me lo ha fatto conoscere). Si opponeva al pagamento delle multe (quando le trovava sul parabrezza se le accartocciava tra le mani e le faceva sparire). E rifiutava il telefono cellulare.
E apriva le cassette delle lettere. Ne era semplicemente capace. Lo sapeva fare, e, cosa non meno importante, sembrava più che disposta a farlo insieme a me.
– Se vuoi lo facciamo – , mi ha detto. Così, con grande pace interiore.
In risposta, credo di essermi attorcigliata le dita delle mani.
*
Non ero del tutto convinta. La cosa sembrava di quelle che richiedono attenzione ed energie. Ed io non ne avevo. Eppure. Appena Lana aveva parlato, da qualche parte una giostra luminosa aveva iniziato a girare. La musica era partita e un cavallino bianco, sporco e imbrigliato, voleva andassi a cavalcioni sulla sua sella. C’ho messo un po’ a decidermi. O meglio. Alla fine è stata Lana a decidere. Mi ha rivolto una domanda, con il suo tono di voce standard. Calmo e razionale.
– La rivuoi o no?
Io la guardai, senza dire nulla. In compenso feci una specie di verso. Una cosa tipo hm. Come a dire, ecco il punto.
La rivolevo.
La lettera doveva tornare indietro.
Mi bastava pensare ai dettagli di alcuni frasi per esserne improvvisamente sicura. Sarebbe stato un gran bene recuperarla. Un gran risparmio di macerie. E di tempo.
E di parole. Inutili, peraltro. Senza capo né coda, senza premesse né conclusioni. Senza coerenza.

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Lui era tornato a casa dai suoi genitori. Dal suo alter ego di bravo figliolo che viveva seicento chilometri più a sud. Io ero rimasta nell’agghiacciante vita domestica a litigare con il finto albero di Natale e chiunque ci passasse vicino. Avrei lanciato carte nella ciotola del cane, se ne avessi avuto uno. Invece passavo tutto il giorno a sentire CD e a farmi strane idee. Non ho mai fissato il vuoto così a lungo come in quel periodo. A volte fissavo il cellulare per quaranta minuti senza inviare alcun messaggio. Altre volte, quando ero per strada, per non farmi notare sostavo davanti alla prima vetrina utile.
Non era affatto divertente.
In tutte quelle pause vacue cercavo di pensare e mettere le cose a posto.
Volevo, tantissimo, mettere le cose a posto. Letteralmente. Volevo fermare la mia testa, scolarla per bene ed applicarci piccole etichette bianche. Volevo rigirarmi le cose tra le mani e avere il tempo di fissarle. Metterle in fila e archiviarle con calma. Fare ordine. Pulizia. Rassettare.
La lettera era uno di quei tentativi.
*
Ci siamo trovate nei pressi del Suo portone, imbavagliate nelle sciarpe. Era una domenica di inizio gennaio. Aria gelida e poca gente (avevamo scelto la domenica proprio per questo).
Abbiamo suonato un campanello a caso, ma senza ricevere risposta. Ne abbiamo suonato un altro. E poi ancora un altro. Nessuno rispondeva. Abbiamo pensato fossero tutti via per le vacanze.
Alla fine, proprio quando iniziavamo ad assiderarci, è uscita una voce.
– Chi è? – , ha detto la voce.
– Pubblicità – , ha risposto Lana prontissima.
– Di domenica?
– Devo finire i volantini… – , ha attaccato lei, – …devo finirli tutti perché se no poi non me li pagano.
Non aveva ancora finito la frase che il portone fece clac.
Siamo entrate e ci siamo fermate nell’atrio. Abbiamo aspettato un po’ per far tornare il silenzio. Per sentire eventuali passi o rumori. Dopo di che ci siamo avvicinate al muro con le cassettine.
Non ci è voluto molto tempo. Nell’insieme direi una ventina di minuti. Lana armeggiava con la serratura ed io facevo il palo. In realtà aprire lo sportello ha richiesto un paio di tentativi. Ma alla fine la cassetta si è aperta.
Ho stretto i muscoli e serrato i pugni; ho preso Lana per un braccio in segno di gloria.
Poi abbiamo subito guardato nella posta e lì, tra le altre buste, c’era quella con la mia calligrafia.
– Eccola – , dissi inutilmente.
– Prendila – , precisò Lana. Aggiungendo:
– Poi me la leggi.
*
Mezzora più tardi stavo offrendo da bere a Lana (che ormai, per molti versi, era diventata la mia supereroina).
La lettera, poi l’abbiamo aperta. L’ho riletta. L’ho passata a Lana. Che ha dimostrato un interesse relativo. E infine l’ho bruciata.
Più che altro, temevo di cambiare di nuovo idea.
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Tarin Nurchis è nata e cresciuta a Trieste. Impiegata fulltime. Blogger dal 2003. Scrive per Soft Revolution ed è fra gli autori di “Storie di amore e follia“, edito online da ISBN. La trovate anche su Twitter.