Non riesco più a vedere film, telefilm, cartoni, qualsiasicosa in cui le persone si nascondono dentro un armadio.
La puntata di South Park “Trapped in the Closet” potrebbe essere un’eccezione, ma lì non ci sono persone che cercano di sparire, solo Tom Cruise che piagnucola e R Kelly che canta.
In ogni caso, chiudersi dentro un armadio per un’intera mattina è un’esperienza da cui si possono trarre insegnamenti. Per esempio, si impara che lo spazio conta tanto per tanti motivi, e una cabina-armadio sarebbe meglio (ma lì si parlerebbe quasi di una piccola stanza, e il tutto perderebbe di fascino). Ricordarsi che, nell’armadio, è fondamentale avere sempre con sé degli oggetti luminosi che aiutino ad affrontare l’isolamento, il buio e la tensione. Garantito, al termine dell’esperienza nella sua interezza si avranno conferme empiriche di verità assolute, tipo la chiattonaggine di una delle coinquiline.
Per nascondersi dentro un armadio occorre una motivazione più o meno buona e avere la maturità mentale di una persona in piena pubertà. Chiaramente, quando m’è capitato, ero in possesso di entrambi i requisiti. E non ero sola.

Photo Credit: rachel a. k. via Compfight cc
Era il mio ultimo anno da studentessa universitaria fuori sede, stavo terminando la scrittura della tesi e da qualche settimana vivevo da clandestina nella casa in cui avevo trascorso (pagando l’affitto) gli ultimi due anni. Ovviamente stavo lì a insaputa solo della Padrona di casa, ma di comune accordo con le mie tre (ufficialmente ex) coinquiline. In fondo era sciocco che io rinnovassi un contratto annuale o trovassi una nuova casa solo per una manciata di settimane: di lì a poco me ne sarei andata, e la mia permanenza momentanea non dava fastidio a nessuno. La casa era grande.
La nostra Padrona di casa però era una persona molto severa, e sua mamma, la Vecchia, ancora di più. Nella mia testa lei è impressa indelebilmente come un mix tra la matrigna di Cenerentola e Mamma di Futurama. Una novantenne ricchissima, arcigna, immortale e malvagia che, a differenza di me, non aveva il fiatone dopo la scalata dei quattro piani senza ascensore per arrivare al nostro appartamento.
Insomma, quando la Padrona di casa e la Vecchia ci avevano concesso di abitare lì, erano state perentorie: non potevamo avere ospiti. Fidanzati? No. Amici? No. Genitori? Forse per i genitori, lasciateci pensare… No. Col passare del tempo noi ragazze però ci eravamo date alla ribellione, e il giorno di settembre in cui accadde il Fattaccio nell’appartamento c’erano un’inquilina di troppo (io) e il fidanzato di una delle mie coinquiline, che da ora in poi chiamerò Giovane F.
Quella mattina, verso le 9, eravamo in casa io, il Giovane F e la sua ragazza. Il Giovane F stava finendo di fare la doccia, mentre io avevo appena fatto colazione, quando suonarono alla porta. Erano la Padrona di casa e la Vecchia. La Ragazza di F le fece entrare nell’appartamento, poco dopo averci sistemato nella camera da letto più grande (prima di entrarci agguantai computer e cellulare, mentre il giovane F riuscì ad indossare l’accappatoio, le sue mutande e i calzini puliti della sua ragazza).
Le due non erano venute per un’improvvisa visita di perlustrazione, ma avevano intenzione di adornare una delle pareti del salotto e per questo motivo si erano pure portate dietro un Vecchio Tuttofare, che avrebbe svolto il lavoro manuale.
Angustiata dall’idea di saltare una lezione, la Ragazza di F decise di lasciarci soli, mentre lei se ne andava in università e la Padrona, la Vecchia e il Tuttofare stavano in soggiorno a fare le loro cose. Io e il Giovane F però non eravamo tranquilli. La camera da letto non poteva essere chiusa a chiave, e sarebbe bastato pochissimo per scoprirci.
In preda al panico, osservammo l’armadio antico che c’era nella stanza, e dopo pochi secondi, in cui ci credemmo delle menti geniali, decidemmo di nasconderci lì dentro.
Ci stavamo larghi, e potevamo scegliere se rimanere in piedi o sederci. Io mi sedetti incrociando le gambe e appoggiandoci sopra il Mac, e ricominciai a lavorare sulla mia tesi. Il Giovane F, invece, privo di distrazioni intellettuali e tormentato dal freddo, iniziò a frugare nell’armadio per trovare vestiti a lui consoni.
Dopo due ore nell’armadio la situazione iniziava ad essere al limite del comico. La nostra trovata ci rendeva una credibile versione dei protagonisti di film stile Scemo e più Scemo. Il Giovane F si era intrattenuto per un po’ giocando a Ma come ti vesti? con gli abiti di una delle coinquiline, e aveva mostrato, in maniera oggettiva ma crudele, come i pantaloni di lei fossero troppo larghi per un fondoschiena maschile. Dopo di che era passato a fare i pesi con i piccoli attrezzi da palestra che aveva trovato in uno dei ripiani. Io, china sul mio Mac, tentavo di comporre frasi coerenti.
A un certo punto sentimmo delle urla: il Vecchio Tuttofare aveva fatto un buco alla parete e per sbaglio aveva centrato una tubatura.
Dopo altre due ore cominciava lo stress della reclusione. Crampi alle gambe, tic muscolari, occhi stanchi. Nemmeno l’attività pesistica, la scrittura o farci le foto flashate con la camera del Mac ci aiutavano più a distrarci. Iniziammo a temere di non farcela, quando sentimmo le Padrone di casa muoversi e parlare di tornare a casa. Io e il Giovane F ci guardammo stringendoci la mano.
Poi, improvvisamente, sentimmo aprire la porta della camera da letto.
Sentimmo le due donne fare il giro della stanza. Stavano parlando di perdite di acqua, di tracce di umidità sulle pareti, ristrutturazione. Quindi avvenne l’inevitabile, quello che si usa chiamare Worst Case Scenario. La Padrona di casa disse alla Vecchia Madre che nell’armadio dovevano esserci ancora dei suoi oggetti. Il suono dei suoi passi era inesorabile e sempre più forte mentre si avvicinava verso di noi.
Tap, tap, tap.
Mi piace ricordare questo momento come se fosse stato girato col rallenty.
Continuavo a pensare: e ora? Come gliela spieghiamo la situazione?
Nella mia testa immaginavo siparietti all’apertura dell’armadio che spaziavano dall’urlare – Sorpresaaaa!!! – all’urlare – … siete su Scherzi a parte! – , indicando col dito telecamere nascoste mai esistite.
Panico.
Mentre iperventilavo, mi voltai verso il Giovane F.
In quel momento mi sembrò l’uomo più virile della terra, anche se era vestito da donna e con i calzini rosa. Il Giovane Uomo non aveva perso completamente la lucidità e stava trattenendo con le sue manine le ante dall’aprirsi. La chiusura dell’armadio era costruita da permettere che facessimo resistenza in quel modo.
Iniziai a pregare.
Le ante subivano degli scossoni ritmici, ma il Giovane F teneva duro. Chiusi gli occhi. Respiro, scossone. Respiro, scossone. La Padrona di casa insistette con perplessa violenza per attimi interminabili. Poi si arrese. E con la Vecchia decise di andarsene.
La porta principale della casa si chiuse alle loro spalle. Uscimmo dall’armadio e ci infilammo sotto il letto, un po’ per precauzione, nel caso fossero tornate all’improvviso perché si erano scordate qualcosa, e un po’ perché eravamo pur sempre Scemo e più Scemo.
Poco dopo, il rumore di una chiave che ruotava nel portone principale.
Il cuore riprese a battere a mille.
– C’è nessuno?
Era la Ragazza di F.
Eravamo salvi.
Risate.
Rilascio della tensione accumulata.
Altre risate.
Se fossimo stati in una commedia, ci sarebbe stato un cartello con scritto “Tutto è bene quel che finisce bene”. In effetti, era finito tutto bene.
Se fossimo stati in una commedia romantica, nascosto con me ci sarebbe stato James Marsden, tra noi due sarebbe nato l’amore e avremmo limonato duro nella penombra dell’armadio.
Ma questa è stata vita vera. E nella vita vera ti va già di lusso avere il lieto fine.
Quindi penso: grazie di tutto, Giovane F.
In fondo è stato bello, oltre che bislacco.
Maria Tasca lavora a Milano come designer. Ha scritto dei fatti propri su blog/livejournal/pagine html durante i suoi sfavillanti anni da teenager, poi ha smesso perchè voleva “vivere la vita, non scriverla”. Ora è tornata sui suoi passi.
(tumblr)
(twitter)