Benvenuti a Persone famose che mi hanno conosciuto, la rubrica dove Chiara Papaccio racconta le persone famose che l’hanno conosciuta.
Cominciamo con un futuro classico del filone: “Gene Anthony Ray nel suo periodo di semibarbonesimo romano”.
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Innanzitutto, un appello. Se qualcuno fra chi sta leggendo conoscesse qualcuno che intorno al 1999 lavorava come fotografo freelance per agenzie straniere specializzate in gossip, personaggi famosi, candid shots, quelle cose lì, consideratemi ufficialmente interessata: nel caso avessero scattato Gene Anthony Ray nel suo periodo di semibarbonesimo romano potrei essere finita in qualche loro lavoro. Questo succede quando non ti fai i cazzacci tuoi.
Gene Anthony Ray che poi era, è e sempre sarà Leroy-di-Saranno-Famosi, per capirsi.
La vicenda è (adesso) nota, e la raccontano con varianti neanche così infinitesimali tutti quelli che hanno più o meno dalla mia età in su: quando Leroy-di-Saranno-Famosi fu invitato a partecipare a Meteore su Italia Uno, non prese mai l’aereo di ritorno per gli Stati Uniti. Secondo i più rivendette il biglietto per comprarsi Le Droghe™ rimanendo poi bloccato qui causa sopraggiunto termine dei fondi a disposizione. Un’altra versione è che si fermò a fare il turista. Poi c’è la versione della tentata apertura dell’accademia di danza in stile Fame, avventura naufragata perché troppo avanti sui tempi. E ancora, siccome noialtri siamo di indole romantica, c’è anche il racconto apocrifo di quelli che sanno per certo che era fidanzato con un ristoratore italiano (ma non fanno confusione con Morrissey?) dal quale era foraggiato: una volta finita la storia terminò anche il generoso mantenimento. Infine, secondo Memole e la sua comunità di nanetti interstellari, Leroy-di-Saranno-Famosi fu colpito e commosso dall’accoglienza italiana e non volle praticamente più rientrare a casa propria preferendo una vita tra panchine sotto le stelle e passaggi al Maurizio Costanzo Show. Io poi propendo per quest’ultima spiegazione perché a Memole si crede ciecamente. E oh.
Fatto sta che c’è una fetta di italiani che sa benissimo che Gene Anthony Ray abitò per un periodo in Italia, poco prima di morire per un ictus a 41 anni. Gli avvistamenti dei quali ho notizia io vengono dall’asse pendolinica Milano-Bologna-Roma. È qui che l’ho incontrato quando una mattina bollente fra i cantieri del Giubileo mi sono mossa per calare sulla Capitale e intercettare la mia amica-di-internet Kristin Jensen, brillante norvegese che ora vive e lavora in Sudafrica (TJOHOO Kristin! Metti caso si dovesse egosearch-are) e che all’epoca era stata invitata da amici danarosi a un matrimonio all’estero - estero per loro, dico. Avendo Kristin un giorno libero da libagioni, Grand Tour dei Castelli Romani, party in terrazze con vista Colosseo e via discorrendo, si era deciso di passarlo insieme mangiando panini piuttosto che qualunque cosa fosse mangiasse in quella settimana di bella vita norvegese in trasferta.
L’appuntamento era alle 8 del mattino ma io ero in anticipo. In forte anticipo. Così tanto in anticipo. per capirsi, che quando mi rovesciai dentro piazza di Spagna direttamente dalla fermata della metropolitana non c’era nessuno. Non c’erano netturbini, non c’erano taxi, non c’erano mendicanti e nemmeno turisti insonni. Certamente non c’erano arrostitori compulsivi di castagne all’angolo con via Condotti e non c’erano commessi a fumare fuori dalla porta delle boutique perché le boutique erano tutte ancora chiuse. C’ero io, il rumore dello zampillo nella Barcaccia, le rondini del mattino presto, e poi c’era, su una scalinata di Trinità dei Monti pure lei deserta, Gene Anthony Ray seduto come una regina sul trono, contornato da paparazzi che click, click, flash, click, lo stavano immortalando.
Nella mia memoria la scena - surreale - si ripete al rallentatore come nei documentari, quando i branchi di leoni si lanciano sull’antilope. Solo che qui i ruoli erano invertiti. Le antilopi saltellanti, il leone al centro e niente affatto soverchiato. Con il completo controllo della situazione.
A ogni modo. Non so cosa mi abbia detto la capoccia, romanamente, in quel momento, ma riconoscere Gene Anthony Ray e decidere di aspettare di esaurire l’anticipo sull’appuntamento con Kristin sedendo e leggendo su quegli stessi gradini che occupava così regalmente fu un tutt’uno. Devo essermi detta che era la mia occasione di guardare uno dei miei idoli di gioventù da vicino. Devo essermi detta che non mi sarebbe più capitato di stare seduta praticamente da sola a Trinità dei Monti (e infatti). Devo essermi anche detta che i fotografi - alcuni dei quali di lingua tedesca, li sentivo parlare fra loro - non mi avrebbero trovato interessante: non penso di essere finita nelle loro inquadrature, ma nell’eventualità c’è l’appello di cui a inizio pezzo.
Non ricordo come avvenne l’inevitabile, ovvero scambiarsi parole con Gene Anthony (ma gradì di essere chiamato col suo nome e non con quello dell’unico personaggio davvero immortale della sua attività nel mondo dello spettacolo). Sarebbe facile e nemmeno passibile di contestazione, visto che qui ci sono solo io, inventarmi una frase a effetto detta dall’uno o da questa. Ma come scriveva Lillian Hellman nel mio anno di nascita,
“Ho scoperto che i racconti dei bambini raramente devono essere creduti. Alcune persone forniscono fin troppi piaceri o vittorie con le quali consolarsi, e altri abbracciano dolori, veri o immaginari, per giustificare ciò che sono diventati”.
E quindi niente racconti di bambini: solo quello che mi ricordo con sicurezza, e con sicurezza l’immagine successiva è di me che cammino a passo svelto verso l’hotel dove avevo appuntamento con Kristin, solo che accanto a me c’era Leroy, e in una Roma adesso bella sveglia e che sa che più avanti in giornata ci sarà da sudare, ali di turisti lanciatisi giù dal letto e direttamente in strada si aprivano in due al nostro passaggio mormorando, esclamando, salutando “Leroy, hey Leroy, it’s Leroy!, Fame! I’m Gonna Live Forever!”. Remember, remember, remember!
Immagine: arriviamo all’angolo con piazza Barberini e Gene si aggancia a un semaforo - posso mostrarvi quale - accenna una coreografia quasi da pole dancer, mentre scatta il verde pedonale piroetta sulle strisce verso le rovine del Planet Hollywood. Anni dopo, nel locale che lo ha rimpiazzato ho conosciuto Lorella Cuccarini. Così, volevo dirvelo. Mi sembra che un po’ c’entri.
Non ricordo molte parole pronunciate quel giorno: il corpo di Gene - ancora in forma, ancora da adolescente nonostante stesse abitando da quasi senzatetto, nonostante fosse sieropositivo - era la sua conversazione. Tra le treccine e la definizione dei muscoli, tra il suo essere così laconico e l’imperturbabilità dell’espressione, per tutta la giornata ebbi l’impressione di andare in giro con un kouros.
Perché sì: Gene Anthony Ray si aggregò - non esattamente invitato - per l’intera giornata. Forse si sentiva solo, forse incuriosito da quella faccenda delle amiche via internet - gliel’avevo spiegata mentre mi congedavo da lui sulle scale di Trinità dei Monti, ma volle venire a vedere di persona. Io ero stupefatta, ma anche perplessa-imbarazzata: che ci fa questo, qui? Ma che c’entriamo noi? Ma è tutto ok?
No, non era tutto ok.
Immagine: entriamo in un bar probabilmente su via Sistina, Gene Anthony Ray si ordina un’abbondantissima colazione al tavolo. Lo guardo inzuppare un cornetto in un cappuccino che col senno di poi è più un flat white - non finisce mai. Alla fine siede con le mani sulla ginocchia. Non dice e non chiede ma è evidente che a pagare dovremo essere noi. Lui non ha contante.
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È uno scroccone. Gene Anthony Ray è uno scroccone. Si aggancia a Kristin Ellen Jensen e me. A ogni pausa di questo giro per il centro di Roma, a piedi, d’estate, rimedia qualcosa da una delle due. Non mi viene in mente niente di più surreale, e sì che di cose stravaganti me ne sono successe diverse.
(Tra l’altro non sono più neanche sicura della reazione di Kristin alla vista di me che entro in albergo con un attore tv, ma ricordo l’ingresso in penombra, i tappeti, l’eleganza dei clienti - e ricordo che all’improvviso non mi sentii più così inadeguata. Leroy era un lasciapassare, un esci di prigione gratis - il fatto che vivesse da senzatetto o quasi era un dettaglio e un segreto di Pulcinella insieme, tanto tutti si giravano a guardarlo; tutti sussurravano “Quello è…” “Sì sì è proprio quello”.)
Quel giorno Leroy-di-Saranno-Famosi rimediò pasti e conversazione, conversazione alla quale temo di aver partecipato davvero solo in minima parte, non tanto per lo sbalordimento di cui sopra ma anche per il livello allora casereccio del mio inglese da autodidatta via chat. Sbalordimento che peraltro era anche altrui: voglio dire, immaginate che vi entri nel bar, nella hall dell’albergo, nel McDonald’s, nella tabaccheria, nel baracchino dell’edicola (tutti posti effettivamente visitati) Gene Anthony Ray, ballerino e attore, noto volto tv, icona degli anni ‘80, Meteora - ma questo poco importa. Esternamente possiamo anche aver dato a vedere una certa poker face, ma dentro era tutta un’altra storia.
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Immagine: Gene Anthony Ray scruta Roma dalla terrazza del Pincio. I turisti fanno le foto a lui.
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Immagine: Gene Anthony Ray ha un certo appetito. Dove si potrebbe mangiare? Io tra l’altro non ho tutti questi soldi con me. Kristin deve tornare dagli amici e le loro libagioni nuziali. Leroy e io rimaniamo da soli al fast food. Mangiamo in silenzio. Lui prende un cheeseburger, patatine, coca (sono strane, le cose che poi ti ricordi).
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Quando manca poco al mio treno, Gene si autoinvita a casa mia. Non mi sembra abbia minimamente compreso che non sono romana e priva di occupazione/reddito - mi ospitano i miei genitori, e continueranno a farlo per un po’. Lui insiste, in maniera non sgradevole ma con una punta di disperazione. Insisto anche io. Gli spiego come a un bambino. Un po’ lo è, e sta facendo i capricci. Dopo una giornata senza mostrare la sua vera faccia, adesso compare. Mi chiedo come mai ora, come mai con me: aveva sicuramente legato di più con Kristin, fra noi due. Gli dico che mi dispiace ma mi dispiace. Non posso aiutarlo. Uso proprio questo verbo, per la prima volta in questa giornata, quando la mia innocenza di provinciale viene finalmente raggiunta con ritardo dall’ovvietà di quello che sta succedendo. La sua faccia cambia di nuovo. Ridiventa un kouros. Non ho foglietti di carta e mi dispiace rovinare il libro che sto leggendo, allora… gli lascio il libro (era Scritto sul corpo di Jeanette Winterson, che provavo a leggere in inglese). Sulla quarta pagina scrivo a penna il mio numero di cellulare. “Whatever else you might need…”, gli dico, e penso solo che non sono sicura di aver usato la forma verbale giusta. Non lo so tuttora. Lui non risponde. Con l’indice gira il libro verso di sé. Scruta la copertina. “It’s a really good book, by the way”. “Mh-m”. È offeso. Piccato. Gene Anthony Ray adesso ha un problema. Dove dormirà?
Se mi giro, nella mia mente lo vedo ancora seduto diritto, con le mani stavolta in grembo e non sulle ginocchia. Il libro sul tavolo (probabilmente l’avrà lasciato lì, ma per qualche mese dopo la sua morte mi sono coccolata col pensiero che potesse averlo letto, trovato della bellezza, della consolazione). Bello come la regina di Saba, o Nina Simone. Quel giorno aveva 29 anni. È morto da dieci.
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Delle tante che ci sono, Chiara Papaccio è quella anche giornalista.
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