
Photo Credit: OrangeCounty_Girl via Compfight cc
Io non sono una persona da dolci. Pasticcini, creme, frutta candita, panna: più lontani stanno meglio è. L’odore di una pasticceria mi disturba, la vista di alcune torte particolarmente elaborate scatena in me una sorta di timoroso ribrezzo.
Una volta, però, ho mangiato un cupcake.
Mi spingeva una doppia molla: da un lato l’amicizia verso la persona a cui li avevo regalati, dall’altra la curiosità di scoprire cosa si nascondesse dietro i colori pastello e la follia della Rete. Ho affondato i miei denti inesperti nello zucchero lavorato ed eccola lì: la rivelazione. L’esplosione di sapori che mi sono trovata in bocca (per la maggior parte, c’è da dire, veicolati dallo zucchero) ha raggiunto direttamente il cervello, ordinandomi un secondo morso, e poi un terzo, e poi ancora un’altra metà di cupcake.
La mattina dopo, la mia fidanzata mi ha fatto trovare sul tavolo della colazione altri due cupcake colorati, tutti per me. Già quella sera, però, era tutto finito. Sazia di glutine come non ero mai stata prima, e come, in futuro, non sarò mai più, ho lasciato andare i cupcake per la loro strada. Non era un amore destinato a durare, ma conservo un ottimo ricordo di quelle ore di passione.
Purtroppo la mia incursione nel mondo del sesso eterosessuale non è stato altrettanto rivelatrice.
Prima di andare oltre, lasciatemi fare una piccola premessa:
sono una ragazza di 26 anni che ha fatto il suo primo coming out in terza elementare (“Silvia, sembra che LEI ti piaccia…” “Eh!”), scoperto i commenti omofobi alle scuole medie (decidendo su due piedi di archiviarli nel baule “stupidaggini”), finto per gran parte dell’adolescenza di essere interessata in egual misura a entrambi i sessi (ma se vedeste le foto dei ragazzi che ho frequentato non ci sarebbe bisogno di spiegarvi che si trattava di una partita persa in partenza, adorabilmente effeminati com’erano, tutti) e che, al momento di fare il salto di qualità tra le lenzuola, chissà perché, si è ritrovata a farlo sempre con delle ragazze.
Non è stata una scelta razionale, o ragionata. È solo capitato che, per diversi anni dopo il primo, grande, tragico amore adolescenziale (che, in verità, era diretto verso uno dei giovani effeminati di qui sopra) a farmi perdere la testa sono state sempre ragazze.
Non era qualcosa su cui riflettessi, troppo impegnata com’ero a correre dietro a loro, lamentarmi dei soldi che non bastavano mai, delle distanze impercorribili, dell’ingiustizia della vita e delle lezioni universitarie alle 8 di mattina per perdere il tempo in questi futili pensieri. Così, quando le persone attorno a me mi dicevano “non sai cosa ti perdi a non andare a letto coi ragazzi!”, un po’ ci credevo. Magari mi stavo davvero perdendo qualcosa, pensavo, ma non c’è mai tempo per tutto, no? Prima o poi avrei avuto voglia di fare sesso anche con un ragazzo, e l’avrei fatto. Senza troppi problemi.
Fu così, difatti.
Il momento arrivò alle soglie dei miei 20 anni, mentre ero dispersa per l’Europa in un Erasmus che mi ha visto più volte su un aereo che dentro un’aula universitaria. Dalla base tedesca, dove avevo lasciato la valigia più grossa (e quasi tutti i miei libri), mi spostavo in treno, in pullman, in aereo verso mete spesso occasionali, inebriata dalla possibilità di raggiungere quasi tutta l’Europa con pochi euro e qualche ora di sonno perso.
Era gennaio, un gennaio caldo per gli standard tedeschi che comunque, sulla mia pelle abituata al sole della Sardegna, sembrava una gelata biblica, che mi entrava nelle ossa e sembrava non andarsene più. (Anche perché non ero abituata a portare vestiti invernali e invece di adeguarmi avevo deciso di ignorare le buffe tradizioni di zona.) Nella valigia per l’ennesimo viaggio, stavolta verso la Spagna, avevo messo il lettore mp3, qualche jeans, un paio di scarpe di tela, diversi cambi di magliette e una giacca. Tutto quello che mi serviva per raggiungere uno dei miei più cari amici e una città che, finalmente, avrebbe avuto di nuovo l’odore del mare nel vento. La Spagna però mi aspettava con le tasche piene di sorprese. La prima fu la scoperta che il mare non ha lo stesso odore in ogni costa.
A questa novità se ne sommarono diverse altre che mi misero in uno spirito avventuriero. E l’ultima fu Alex, il coinquilino inglese del ragazzo che mi ospitava.
Ora, potreste pensare che la definizione “coinquilino inglese” sia stata inserita per fare colore, per darvi un quadro della situazione. Oh, no. L’aggettivo “inglese” è il perno di tutto il racconto, e meglio ancora dovrei definirlo londinese. Tanto io fuggo i dolci quanto vengo attratta da quell’accento. Quanto più è marcato, più forte è il fascino che esercita su di me. Questa storia ne è la prova vivente.
Fra me e Alex non fu colpo di fulmine, ma mentirei se dicessi che non ci trovammo subito in sintonia. La sua indole giocosa e il suo fingersi più goffo di quanto non fosse lo rendeva subito simpatico, abbattendo qualsiasi barriera (e non parlo solo di me), ma tra una battuta e l’altra emergeva qualcosa di affascinante. L’accento era la ciliegina sulla torta.
Un pomeriggio corse avanti e indietro fra cucina e soggiorno per mezz’ora, cercando di correggere un tè col latte che proprio non voleva saperne di soddisfarmi. Troppo zucchero? Troppo latte? Troppo freddo? Troppo corto? Non ero io a impuntarmi su piccolezze del genere. Ogni volta, tornando verso di me con sempre la stessa tazza in mano, anticipava l’errore commesso, mi scrutava in viso cercando una conferma, si riprendeva il tè e, dopo essersi battuto sulle tempie, via, di nuovo, da capo. Non aveva nessuna intenzione di farmelo bere, ma mi fece ridere finché, esausta, non lo costrinsi a sedersi sul divano accanto a me, tenendolo fermo con una gamba. E forse era proprio quello che voleva dal principio.
Dopo due giorni di flirt e birre bevute sui ciottoli di Alicante, finimmo prima abbracciati in un angolo appartato di un locale e quindi, infine, in camera sua.
Le capriole che ci si potrebbero aspettare a questo punto del racconto, però, non ci furono. O meglio, ebbero vita molto breve. La scena successiva vede una me annoiata e quasi sbadigliante che dice con un mezzo sorriso “è meglio finirla qui”. Quello che c’è stato in mezzo lo saprete ben meglio di me, che l’ho fatto una volta sola e pure per metà.
C’è però da dire che a sei anni e passa di distanza cerco ancora di capire come un ragazzo possa brancolare nel buio davanti al corpo femminile, non sapendo, letteralmente, dove mettere le mani. E non parlo di uno sbarbatello con poca esperienza e ancora meno fantasie, parlo di ragazzi che rimorchiano regolarmente e altrettanto regolarmente si vantano delle loro conquiste (non sapendo che ci sarebbe ben poco di cui vantarsi).
Io ho lasciato il mio Don Giovanni con l’orgoglio incrinato e qualche grossa domanda esistenziale sulla testa (Se ti piacciono le ragazze perché siamo qui? Pensavi che io fossi una ragazza?), ma sono sicura che è sopravvissuto.
Per quanto mi riguarda, sono ripartita con qualche consapevolezza in più in saccoccia.
Non dico che non ricapiterà mai - magari, chissà, sarà anche più frequente di quanto non mangerò cupcake. Ma dei due ricordi uno mi fa sorridere e l’altro ridere, e c’è una bella differenza.
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Silvia Pilloni lavora in editoria e nel tempo libero scrive di questioni più superficiali e rilevanti. Ogni tanto quando si guarda allo specchio perde la cognizione del tempo. Lo stesso vale per Twitter.