storia vera

La volta che ho smesso di respirare e tutte le altre volte.

Illustrazione di Marica Benini  (http://soqquadrerie.wordpress.com/)

Illustrazione di Marica Benini (http://soqquadrerie.wordpress.com/)

È l’otto agosto e sono in camera mia con gli occhi al soffitto. E non è il caldo che mi alza dal letto, mi costringe all’aperto; è solo un ricordo che ha bisogno d’aria.

È successo tutto molto in fretta e non c’è poi granché da raccontare di quei pochi minuti in cui tutto è sembrato qualcosa a cui aggrapparsi: il bordo del letto, lo schienale della sedia, la porta che dà sul corridoio della casa al mare dei miei. Afferravo e subito lasciavo andare: non respiravo più e questo cambiava la forma alle cose, le rendeva fondamentali per un attimo e subito dopo completamente inutili. Insomma, tradita dal letto, dalla sedia, dalla porta, dal pavimento, dal naso che era morto e dalla bocca che non serviva. Faccela, faccela, pensavo finché non l’ho pensato più: minuti come ore intere erano passati, mesi interi dal letto alla porta, e allora ho capito che c’era un confine anche se non si vedeva e che io l’avevo superato ed ero precipitata dall’altra parte. Calma. Stupita, anche. Allora è così che succede, ho pensato.

C’erano i miei dall’altro lato della parete. Hanno sentito, sono arrivati mentre svenivo: soccorsi, ospedale, visita lampo, quando già i polmoni erano tornati a funzionare e il naso e la bocca e, stranamente, tutto il resto del corpo.

Una reazione allergica, ha detto il dottore a mia madre. Può succedere.

Dispnea. Una parola così difficile. Neanche brutta, difficile.

Ma guarda, pensavo, tornando in macchina nel buio della notte messinese che mi pareva calda e rassicurante rispetto a quello che durante il giorno potevi mangiare o bere o perfino annusare beccandoti una coltellata al petto. Comunque è finita, pensavo.

È finita per tre giorni. Alle due di notte dell’otto agosto è ricominciata.

Ho deciso da sola, senza nessuna pressione, valutando che una decina di incontri offerti dall’ASL col solo pagamento del ticket potessero bastare a dare un taglio alla cosa, a farmi tornare normale.

– Ho un lieve disturbo da stress post traumatico – avrei detto al dottore, perché magari dieci incontri si sarebbero rivelati pochi ed era sensato sbrigarsi.

E lo avrei detto subito, niente giochetti. Mi convincevo di esserne convinta mentre aspettavo lo psicologo che mi avevano assegnato al telefono e non arrivava. Io aspettavo e intanto qualcosa mi scavava un nido in mezzo al petto e affilava gli artigli per la notte. Lo sentivo accucciarsi, farsi di pietra, pesare sul cuore.

Una stupidaggine questa, non l’avrei detta al dottore. Al dottore avrei detto: – Un mese fa ho creduto di soffocare e da allora ho un’ansia continua. Qui, vede, a sinistra del petto.

Seduta non reggevo però. Dovevo muovermi, andare su e giù per il corridoio, stringere il suo nome scritto su un foglietto come un’autorizzazione a cercarlo nelle stanze asettiche e grigie che mi venivano incontro.

Devi ammazzare questa cosa, ammazzarla, pensavo e intanto la portavo con me nel corridoio, finché non ho trovato una stanza colorata e in disordine e tre bambini che contribuivano a renderla colorata e in disordine: buttati a terra, due maschietti si litigavano disegni e pastelli; una femmina sui quattro anni si teneva un foglio sulla testa ciondolando verso la scrivania.

– Ti piace?

Circondato da una marea di cartelline un uomo brizzolato, con una penna appoggiata sull’orecchio e lo sguardo perso sulla pila di documenti accatastati davanti, ha girato la sedia.

– Vediamo – ha detto. Ha valutato con attenzione l’opera.

– Tu non pensi che manchi qualcosa?

Lei ci ha pensato.

– Sì – ha detto, ed è tornata sul pavimento. Ha fissato il foglio ancora un po’ prima di scegliere il pennarello giusto. A quel punto lui si è accorto della spia sulla porta.

– Aveva un appuntamento con me?

Ho chiuso nel pugno il nome dell’altro dottore. Ho fatto sì con la testa.

– Mi perdoni – ha detto, – deve esserci stato un errore: ufficialmente sono ancora in ferie ma qui c’è un tale caos che sono dovuto venire e portarmi un aiuto.

Ha indicato i bambini con un cenno e intanto dal caos ha fatto comparire un’agenda.

– Le va bene se facciamo martedì?

Niente di neurologico o fisiologico, gli avrei detto. È solo che muoio tutte le notti, alle due in punto. Mi sveglio e sto morendo e non è vero per nessuno tranne che per me.

Funziona più o meno così: il buio fa male, un passaggio stretto o una stanza piccola fanno male, il treno, la macchina, le gallerie. Le scene dei film fanno male: la faccia tirata dell’attore che si porta le mani alla gola, tossisce, muore. Le parole fanno male: “soffocare”, “strozzarsi”, “insufficienza respiratoria”. Un niente può fare male. Gli amici intorno ridono e scherzano più forte per distrarti, ma è come stendere una coperta addosso a un ipotermico. Grazie, davvero, solo che ricomincia questa cosa, l’avevate addormentata e adesso si risveglia per nessun motivo al mondo.

Ho una molla nel petto che tenta di uscire e spinge sulle costole, sulla spalla e sul braccio sinistro. Mi tiene in ostaggio di mattina, infierisce la sera. Mi impedisce di stendermi nel letto per non farsi schiacciare: minaccia di togliermi tutta l’aria della stanza. Così, esausta, crollo appoggiata alla testiera, finché non sono le due: alle due mi sveglio senza fiato e senza forze. Sto morendo. Può succedere.

Così è venuto il primo martedì e non ho detto niente. Il dottore non ha detto niente, cosa deprecabile dal mio punto di vista.

– Non dovrebbe farmi qualche domanda?

– Che domanda vorrebbe che le facessi?

Ci ho pensato. Nessuna.

– Partiamo dal motivo per cui è qui.

Perché mi sei sembrato un tipo paziente, ho pensato.

– Per una stupidaggine, veramente.

Gli ho raccontato il fatto e il mese che è seguito. Non c’era motivo che questo panico continuasse. Eppure continuava.

– Mi creda, non sono pazza. Lo so che non sto morendo davvero.

– E come fa a dirlo?

L’ho guardato.

– Sto morendo?

– No – ha fatto lui. – Ma c’è una parte di lei che non riesce ad escludere questa possibilità.

Quando mia nonna entrava nella stia dei conigli li vedevi scappare da tutte le parti. Sentivano che ne avrebbe preso uno, lo avrebbe colpito sul collo con un colpo secco, gli avrebbe torto la pelle dalle zampe fin sopra al muso. A volte sapeva già quale prendere; altre lo sceglieva lì per lì, spostando lo sguardo da una gabbia all’altra. Per mezz’ora dopo che lei era uscita con la vittima scalciante e disperata, gli altri conigli avrebbero tremato. Io e mio fratello correvamo ad accarezzarli per rassicurarli che il peggio era passato. Ma non era passato, era solo rimandato e per quanto potessero essere bestie con un cervello ridicolo, quel terrore consapevole gli rimaneva attaccato sotto il dorso e tra le zampe. Gli occhi sbarrati, le orecchie basse, il muso contratto. I brividi. Era quello. Ero io.

Ho inseguito molto la cura alla paura nei mesi successivi. Era nelle grotte di Frasassi, nei viaggi in treno per andare all’università. Era forzarmi a fare tardi la sera. Accendere la tv appena la crisi mi svegliava, concentrarmi sui colori e le voci stupide della fascia notturna. Ho parlato dell’aria durante gli incontri col dottore, del fatto che ci è necessaria per vivere per quanto folle possa essere una cosa del genere.

Insomma credevo fosse questo: semplicemente non avevo ancora smesso di tremare.

Ma c’era dell’altro che è venuto fuori di colpo parlando con un’amica, la stessa che prima di partire per il mare mi aveva raccontato di una sua compagna delle medie, morta per una crisi d’asma mentre era sola in casa. Un aneddoto terribile, pieno di dettagli (la scopa battuta sul pavimento per avvertire i vicini, lo sforzo inutile per raggiungere il balcone), un grumo di dolore e sconcerto che una parte di me senza farsi vedere aveva conservato e nutrito fino all’incidente.

– Non deve sentirsi in colpa perché lei non è morta – ha detto il dottore. – È stata solo più fortunata.

Poteva essere un lutto e una colpa, quindi, questa pietra nel petto. E una paura comprensibile: se è successo una volta per qualcuno, è naturale che succeda anche a te.

– Mi creda, la felicità non è una torta: se ne prende un pezzo più grosso non lo fa a discapito di nessuno.

– Questo non lo so – gli ho detto, ma quella notte ho sognato la neve, uno spettacolo bianco, pulito, che riempiva la finestra. Mi dispiace, pensavo guardandola e intanto il mio braccio si scioglieva e il lato sinistro del petto e anche il cuore non lo sentivo più, stava zitto, si riposava dopo un mese e mezzo di dolore, di veglia e di attesa che era finita.

Non è il pensiero della morte, il fatto che sia una possibilità abbastanza concreta. È il come. Solo il come.

Da quella volta l’angoscia torna solo ogni tanto, come una mina nascosta nelle cose più disparate. Un cane che si trascina ansimante per strada. La lenta agonia del Kursk. Una chiacchiera casuale con un’amica ematologa in ansia per un paziente terminale sul punto di.

– È come annegare dentro – mi dice. – A qualcuno succede.

Continuo così a calpestare mine e a ignorare le piccole incrinature che causano scoppiando sulla mia naturale predisposizione all’immortalità. Solo una notte, nella prima settimana d’agosto, per nessun motivo apparente resto sveglia fino al mattino, incapace di dormire o di restare a letto, incapace di disobbedire al corpo che insiste per uscire sul balcone in cerca di aria che basti per un altro anno.

Giusi Marchetta vive a Torino dove insegna italiano con alterna fortuna. Aggiorna di rado  AltaInfedeltà  e troppo spesso  AltaInfedeltà.  Colleziona racconti d’autore segnalati dai lettori qui.  Il suo ultimo romanzo è “L’iguana non vuole” (Rizzoli, 2011). 

Photo Credit: matdur69 via Compfight cc

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