storia vera

Dentini.

il tricheco e il carpentiere

“Il tuo grande avvenire”. Ascoltalo ripetere questa frase sorridendo, osserva il modo in cui stira piccole labbra molli su una chiostra di dentini ordinati che sembrano da latte. Il grande avvenire che avrai, si suppone grazie al suo aiuto.

Che gliene viene a lui, di esercitare questo ruolo di mentore, lui che ha fatto questo e quello, un lungo, dettagliato e inverificabile curriculum vitae che ama recitarti da capo in ogni occasione. Lui che era allievo di Tizio, assistente di Tizio, che conosce Caio anzi è stato addirittura il curatore della prima mostra di Caio, anche se nessuno lo sa, e come lo stimano Tizio e Caio! Ma in particolare Sempronia. Sempronia non muove un passo senza di lui, non riusciva nemmeno a chiudere la sua prima personale, poverina, senza il suo, di lui, rigoroso apporto. “Certo che ti aiuto Sempronia, le ho detto, ma in modo informale, si intende, resti tra noi”. E poi, tutte queste Sempronie, le sue discepole segrete, non ti vanno a esporre alla Biennale? “Siamo ancora grandi amici, io e Sempronia, ho sempre avuto una maggiore e istintiva attitudine per l’amicizia con le donne”.

Insomma che gliene viene? “Alla mia età, ormai, quello che mi interessa davvero è creare una rete di amici e collaboratori, occasioni di confronto tra artisti e creativi, far emergere le forze giovani, il talento dei giovani”.

I giovani, dirà, largo ai giovani. Dal momento che fa più volentieri amicizia con le donne, non ne consegue che i giovani di cui ambisce circondarsi siano di fatto delle giovani?

Ma non dovrai preoccuparti, no, “Io mai mi sognerei di intraprendere una relazione con una ragazza, chessò, di trent’anni” anche se per un momento si tacerà come per studiarti, “Quanti anni hai tu?”. E di nuovo quei dentini.

Il tuo grande avvenire.

Questo grande avvenire sarà una cosa che andrà costruita giorno per giorno attraverso scambi quotidiani di email, le tue saranno stitiche e compassate; le sue, invece, torrenziali ed enfatiche, roboanti dichiarazioni di affetto e stima imperitura, innuendo che dovrai intendere come giocoso – “Ti mando un casto bacio” scriverà, “se non è già di per se fuori luogo per un uomo della mia età desiderare di baciare una donna che sembra una ragazzina”. Ti offrirà vari lavori, le tue foto saranno pubblicate su questa o quella rivista. Certo non vi sarà alcuna retribuzione, solo visibilità, e tu della visibilità hai bisogno. Dopotutto, le sue non saranno solo chiacchiere, come potrai tu stessa constatare le tue fotografie appariranno, puntualmente, là dove lui dice che saranno pubblicate.

Ci saranno però le telefonate, anch’esse quotidiane, innecessarie e interminabili. “Non mi piace molto stare al telefono” prova a dire tu, per farle smettere.

“Ah! se è per questo neanche a me, se non per assaporare il timbro di una voce cara”. Le telefonate per qualche giorno diraderanno, poi ricominceranno da capo.

“È uno stalking multipiattaforma” scherzerai con gli amici. Sarà un’iperbole la tua ma fino ad un certo punto, perché non basteranno le mail e le telefonate, gli sms, per incrementi successivi ti parrà di vederlo conquistare sempre nuovi territori. Leggerai lunghi, verbosi e spesso indiscreti commenti sul tuo blog. Spadroneggerà sulla tua bacheca di Facebook come un fidanzato d’altri tempi, niente rimarrà ignorato, incommentato, incondiviso.

“Ho letto sulla tua bacheca che giovedì andrai alla mostra di Tizio, è proprio dietro al mio ufficio”, ti dirà un giorno, al telefono. All’udire queste parole deglutisci, prendi tempo. Cogli l’occasione per armeggiare con le impostazioni di privacy del tuo account. Trova il comando Hide all tags from timeline e spuntalo, troppo tardi.

La mostra è prevista in tarda serata e lui ti richiamerà per dirti che non può venire. Però “proprio accanto alla galleria c’è una gelateria buonissima, la mia preferita, provala! Mi ringrazierai”.

Riattacca il telefono e fermati, giusto il tempo di sentire il sangue furioso, effervescente nei polsi. Questo esproprio deve finire, penserai. Ti chiederai se non é già abbastanza che i tuoi pensieri, il tuo tempo, il tuo lavoro siano diventati in breve tutti capitoli sui quali deve avere una voce, ti chiederai se anche la tua alimentazione sia ora una cosa che deve essere stabilita da lui a tavolino. Rimproverati per la tua insofferenza, certo eccessiva.

“L’hai poi mangiato il gelato?” ti chiederà qualche giorno dopo. Fatti vedere accigliata, guardalo senza rispondere. Vederti così lo farà esitare come folgorato da un’intuizione, una sconsolata presa d’atto, “Mi sa che tu sei una a cui nemmeno gli piace il gelato” dirà lui.

“Infatti” rispondi, stizzita, anche se non è vero.

A un certo punto ti rimprovererai dicendoti che avresti dovuto capirlo sin dal primo incontro, dal profumo l’avresti dovuto capire. E certo, il buonsenso ti ha suggerito che non poteva esservi nulla di oggettivamente sgradevole nella fragranza – una colonia?, un dopobarba? L’hai giudicata costosa, forse un po’ dolciastra ma certo inoffensiva, eppure essa ti ha investito come una cosa viva e affamata non appena la sua piccola mano paffutella si è chiusa intorno alla tua. E dopo, al tavolino di un bar, all’aperto, lui ha cominciato a parlare parlare parlare ma il profumo è rimasto sempre lì tra voi, una nebbia di particelle impegnate in un invisibile assedio molecolare, lanciate all’assalto di ogni tuo poro, follicolo, ogni fibra dei tuoi abiti, una nebbia attraverso la quale ti è stato impossibile vederlo con distacco. Il profumo, il suo tormento, non ti ha però impedito di cominciare a notare in ogni cosa che lui racconta le tracce di una sottile adulterazione. Questa sembra mitomania a fuoco basso, hai pensato: non del tutto pronta a tramutarsi in pazzia conclamata, in invenzione pura e semplice, si accontenta di compiere una modesta ma inesorabile sofisticazione del dato reale. Quando un’ora dopo lo hai salutato e barcollando ti sei avviata verso la macchina, il profumo non ti ha lasciata, come un parassita annidato nelle narici ha guastato ogni tuo respiro, come un tamburo ti ha aggredito la testa – da tutto questo avresti dovuto capirlo.

Più tardi ti dirai che non diamo mai abbastanza peso alle prime impressioni. Che sia per pigrizia, buone maniere, un malinteso convincimento che non bisogna essere precipitosi nel giudicare. Ma quest’ostilità che hai provato, non è parente di quegli altri allarmi ancestrali, quelli che ci fanno riconoscere i veleni, sputare i cibi avariati, quelli che ci fanno sopravvivere? Più tardi ti chiederai come sia stato possibile che una tale potente repulsione non fosse stata, se non reciproca, per lo meno percepita. Intanto, “Ti conosco solo da poche settimane ma sento già di volerti così bene” scriverà lui. E allora penserai che sarai anche un’ingrata, certamente sei un’ingrata, ma che in fondo non gli ha mai chiesto niente. Rifletti con meraviglia su come sia possibile che dopo tre settimane di questo tuo non chiedere niente, non siano cortesia o gratitudine quello che lui si aspetta da te, ma addirittura di volergli bene. L’affetto, la più indisciplinabile delle emozioni.

Mettiti in cerca di scuse per evitare di vederlo di persona. Ricordati dell’allarmante aggressione olfattiva che hai subito, ricordati di come ti sei sentita le altre volte prima di ciascun vostro prospettato incontro, pensa alla cupezza senza senso e senza fondo che ti è calata addosso in quelle occasioni, a quella spossatezza letargica da pecora al mattatoio, a come ti sei resa conto di non esserti mai sentita così sola come in quel momento, seduta al tavolino di un bar guardandolo avvicinarsi. Deciderai allora di ascoltare l’istinto: hai molto da fare, gli dirai per email.

“Cara, come vorrei che esistessero due ‘te’, una per lavorare ai tuoi preziosi progetti e un’altra che ogni tanto si facesse un’allegra chiacchierata con me. Giuro che la tratterrei per poco, presto la restituirei alla sua vita, ai suoi amici, ai suoi cari” scriverà lui in risposta, ti parrà quasi di sentirlo sospirare. “Non penserai mica che abbia chissà quali mire sul tuo grazioso corpicino o sulla tua anima”.

Leggere le parole ‘grazioso corpicino’ per un momento ti appannerà la vista. Decidi che è per questo che devi smettere di vederlo, queste attenzioni che ti rivolge ti stanno diminuendo.

Al vostro quarto e ultimo appuntamento, un’enoteca questa volta, ascolta i minuti morire a decine salassati dal fluire rizomatico e centrifugo dei racconti di lui – il suo pensiero scola, come al solito correrà da un’associazione a un’altra come attraverso una serie infinita di cataratte, nessun ragionamento verrà mai portato a termine, non ci sarà mai la sicurezza di un punto alla quale tornare. La noia, una noia mai provata prima che somiglierà per urgenza e frenesia alla disperazione, comincerà a sospingerti in alto e poi fuori da te stessa. Ti sembrerà di poter osservare la scena, voi due seduti al tavolo, simultaneamente da diverse prospettive, dagli altri tavoli, dal bancone, dagli scaffali dietro di te su cui stanno allineati i vini: la tua anima in salvo contemplerà da lontano il corpo, il piccolo scafo vuoto che avrai abbandonato all’anarchia delle correnti. È davvero un corpicino il tuo, spallucce incassate, le braccia ossute ripiegate a proteggere il busto, un laghetto che prosciugandosi si è rimpicciolito, ritirato.

Lui è Emma Bovary, penserai, quando ti racconta di Sempronia, di tutte le Sempronie passate. Ora che siete, a suo dire, più in confidenza, ammetterà che ciascuna di loro, dopo essersi giovata del suo aiuto prezioso si è poi allontanata. Queste Sempronie si riveleranno essere state sempre molto ingrate, col tempo lui ne ha scoperto l’arrivismo, la piccineria. Alcune, invece, hanno preteso troppo, si sono fatte così esigenti che per forza di cose lui ha dovuto troncare, “Mia moglie a volte si ingelosisce” ti spiegherà, “fatica a capire che per me l’amicizia è importante, che mi arricchisce, e di conseguenza si arricchisce anche il mio rapporto con lei”. Ogni nuovo lutto per la perdita di una Sempronia lo ha reso molto triste, pare. Allora ti chiederai se le Sempronie che ti hanno preceduta si siano sentite come ti senti tu, vampirizzate; se al tavolino di un bar una rivelazione abbia fatto trasalire anche loro: “Sono seduta qui come una bambola”; se anche i loro occhi a un certo punto siano diventati biglie di vetro in cui si è agitato il riflesso di lui, affaccendato a servire un tè immaginario in piccole tazze giocattolo e inventare dialoghi in cui faceva da solo tutte le voci.

Sforzati di spiegare agli altri in cosa consista esattamente la prepotenza, la vessazione che ti pare di subire. Sarai scoraggiata dallo scoprire com’è difficile stabilirne i contorni, identificarne le componenti. Una cosa però ti offenderà con particolare evidenza: questo è un assedio a cui non ti è possibile resistere semplicemente trincerandosi dietro i tuoi abituali confini, la resistenza passiva. La cortesia remota che ti ha sempre protetta dall’invadenza altrui non basta. Arrenditi, e comincia a fare tutte quelle le cose che non ti somigliano, il mollusco vulnerabile della tua riservatezza pungolato a morte, costretto ad abbandonare il guscio di buone maniere in cui ha sempre abitato per cercarsene in fretta un altro, più robusto, uno con le spine.

Interrompilo seccamente per riportarlo al punto, nel mezzo di uno dei suoi caotici excursus, una delle mille parentesi che apre e non chiude mai. Seccamente taglia corto al telefono, “Devo andare ora, sto cenando”. Comincia a non rispondere proprio. Prendi l’abitudine di vagliare i commenti che ti lascia in bacheca o sul blog con critico distacco, se sono troppo smancerosi, ambigui, o anche solo troppi, cancellali senza dare alcuna spiegazione. “Qualcosa non va?” ti chiederà lui in una email, circumnavigando l’accaduto. Non rispondere.

Litigherete.

Finirà come deve finire. In capo a pochi giorni anche tu andrai a ingrossare le fila delle Sempronie ingrate. Cederai alla tentazione di leggere il suo blog e vi troverai articolati sfoghi, invettive astruse in cui si scaglierà contro la protervia e la mediocrità dei giovani. Non farà nomi, certo, sarà tutto un parlare alla social-nuora affinché la social-suocera intenda. Si lamenterà di aver conosciuto giovani, trentenni, insulari e irriconoscenti, che rifiutano il dialogo con chi non è dentro la loro cricca, si chiudono in un ghetto generazionale. A volte questi suoi sfoghi scateneranno un acceso dibattito, si affiancheranno altri livorosi: “I trentenni, figli degli anni di merda”, dirà uno. Sono ladri, mediocri, semi-analfabeti, approfittatori – ogni livoroso rincarerà la dose. Leggi tutto, ti sembrerà di aver aperto gli occhi su una dimensione parallela. Come Gulliver ti sveglierai in un mondo diverso da quello in cui abitavi, uno dove tu sei il nemico, un mostruoso extraterrestre. Rifletti su come, forse, era stato solo questo il problema, in tutta questa fastidiosa vicenda. Era stato solo questo, sin dall’inizio.

Flavia Gasperetti è traduttrice, ricercatrice e implacabile intasatrice dell’internet. Collabora come redattrice a Succedeoggi.it e scrive racconti su Vicolocannery.it. Ha anche un blog,  The Brain that Drainedcon il quale ha vinto il premio Blognotes 2012, istituito dal quotidiano Il Manifesto e dal Premio Ischia di Giornalismo. 

(twitter: @abraindrained)

Questa storia è apparsa su Vicolo Cannery; la ripresentiamo qui per gentile concessione dell’autrice e dell’agenzia. 

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