Benvenuti alla nostra nuova eccitante rubrica-fiume, La mia cartella clinica da 20 Kg (lastre escluse), in cui Marta Maria Casetti ci racconta, di preciso, cosa non è andato come avrebbe dovuto nella sua storia medica di corpo/mente/cose.
Siamo molto felici e molto fortunate ad averla a bordo. Marta, tu sei brava. (vb)

Photo Credit: JD Hancock via Compfight cc
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Capitolo zero: quando i miei genitori mi mandarono a giocare con le macchie ma non si trovò nulla di preoccupante o almeno credo.
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Premessa: la storia che sto per raccontare data ad almeno venticinque anni fa, quindi non ho esattamente le prove o memorie precise. Questo spiega il capitolo zero e non uno nel titolo. Ci sarebbe anche la mia preferenza per considerare lo zero un numero naturale; ma lascerei le discussioni di notazione algebrica per un’altra volta, o qui non si finisce più. Fine della premessa.
Non so cosa abbia fatto venire l’idea ai miei genitori. C’era stata la scuola privata in cui praticamente nessuno mi parlava perché non abbastanza ricca e non abbastanza rapida a correre, e poi non vedevo i cartoni animati. Ma il problema dei miei rientri a casa accompagnati da vomito di origine nervosa erano stati risolti dal trasferimento in una scuola pubblica, dove peraltro praticamente nessuno mi parlava perché troppo ricca e non abbastanza rapida a correre, e poi non vedevo i cartoni animati. C’era quel “problemi a socializzare” nel mio giudizio in condotta. Ma andavo agli scout, dove peraltro praticamente nessuno mi parlava, perché per alcune ero troppo ricca, per altre troppo povera, e poi indovinate perché e mio padre anzi diceva che il mio problema era che «correvo troppo dietro alle altre bambine». Può darsi fossero le mie sfuriate ogni volta che qualcuno scombinava la mia organizzazione precisa dei LEGO e dell’armamentario usato per i circuiti elettrici con cui illuminavo la città che avevo costruito. Ma mia mamma era stata la prima a spiegarmi come fare quei circuiti e si divertiva anche lei a spiegarmi la differenza tra “in serie” e “in parallelo”. Può darsi fosse stata quella volta in cui avevo rotto un vaso e avevo detto, letteralmente: «Voglio morire.» Ma non avevo più detto nulla del genere, nonostante una spiccata passione per le poesie luttuose del sussidiario e i quaderni anni ‘40 rigorosamente neri. Può darsi fosse stata quella volta in cui chiesi un altro libro in meno di una settimana, mio padre espresse i suoi dubbi sul fatto che avessi davvero letto e capito i precedenti, si trovò sotto il fuoco di fila della trama dei primi tre libri del Ciclo dei corsari di Emilio Salgari raccontata nei minimi dettagli e dovette sganciare il tomo. Ma anche la casa dei miei era piena di libri, dopotutto, e chi non apprezza una figlia che legge?
In ogni caso, i miei ricordi comprendono una sala d’attesa un po’ buia, ma forse era l’inverno milanese, e un signore gentile che mi aveva fatto accomodare davanti alla sua scrivania per farmi delle domande. Avevo visto abbastanza medici per capire che si trattava di un dottore, ma non mi allarmai e la presi come un’esperienza interessante: più o meno come andare in vacanza, solo a tre isolati da casa. Le prime domande furono sulla mia vita in generale; poi iniziarono i giochi. Iniziammo con una serie di cartoncini con la storia di un cagnolino da ricomporre. «Il cagnolino è maschio o femmina?» «Femmina?» Un secondo dopo, chiarissimo, il pensiero “vuol capire se mi identifico nel cagnolino, va’ là.” Poi fu il turno delle facce: «Qual è la faccia felice, qual è quella triste, qual è quella arrabbiata, qual è quella infelice?» Non mi ci volle molto a ricordare quella malattia di cui mi diceva mamma, i bambini autistici; in ogni caso era un esercizio facile e argomentai le mie scelte in maniera convincente. Infine, le macchie: «Dimmi cosa vedi, non c’è una risposta giusta e una sbagliata.» Panico: “io sono una brava bambina, devo dare la risposta giusta.” Ma alla fine il piacere del gioco prese il sopravvento, trovai facce e farfalle e fiori. Il dottore sembrò soddisfatto, mi chiese di aspettare in sala d’attesa, chiamò i miei genitori. Se ci furono altre visite, non le ricordo.
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I problemi a socializzare diminuirono, soprattutto quando le mie compagne degli scout scoprirono le mie doti di cuoca e la mia precisione come organizzatrice di attività. Correvo sempre dietro alle altre bambine, ma ero diventata brava a non farmi vedere. Continuai a non vedere cartoni animati ma iniziai a macinare film, con grande gusto; il mio preferito era A qualcuno piace caldo, che imparai a memoria con la diligenza che avevo già messo a punto su libri e LEGO. Qualche influenza, la scarlattina, il morbillo l’avevo già fatto a cinque anni, per la rosolia ero stata vaccinata con tutte le altre bambine. Anche le tonsille rimasero al loro posto.
Non rividi dottori degni di nota fino al sei gennaio 1991, qualche giorno prima della Guerra del Golfo. Avevo appena compiuto tredici anni, e questo fu molto utile.
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Marta Maria Casetti è milanese e da sette anni e mezzo londinese. Tra la fine dello scorso millennio e l’inizio del presente ha scritto recensioni cinematografiche e in un paio di casi anche televisive per [Duel] (noto anche come Duellanti). Non sa a memoria “Der Ring des Nibelungen” di Richard Wagner ma ci sta lavorando. Dovrebbe riordinare i suoi blog e affini; al momento la trovate soprattutto sul tumblr Feathers e su Twitter. La sua cartella clinica pesa davvero più di venti chili al netto di lastre e TAC.

Photo Credit: Walt Jabsco via Compfight cc