Mio nonno è morto qualche anno fa, all’età di 94. Egli ha vissuto, anche troppo.
Da ragazzino ha imparato l’arte di ferrare i cavalli, da cui il soprannome Gigio Feràro (transl. Luigi che batte il ferro). Durante la Seconda Guerra Mondiale ha pilotato un bombardiere trimotore Savoia-Marchetti S.M.81, per gli amici Pipistrello, fino a Rodi. Nel 1951 ha sposato mia nonna Carolina, detta Nina, che si è ammalata di tisi ed è morta, lasciandolo vedovo con un figlio di 3 anni: mio padre. Prima di morire, mia nonna Nina ha chiesto alla sua migliore amica, Rina, di sposare mio nonno e allevare mio padre. Mia nonna Rina era tanto una brava ragazza, ma era bruttona e a trent’anni suonati non se l’era ancora presa nessuno, quindi accettò senza fare una piega.
Mio nonno Gigio e mia nonna Rina, da che li ricordo, dormivano nello stesso letto in una camera che sapeva di Aqua Velva e naftalina. Io e mia sorella, quando ogni tanto restavamo a dormire dai nonni, avevamo una camera col lettone tutta per noi di fronte alla loro. Mia nonna veniva a darci il bacio della buonanotte e dicevamo insieme una Salve Regina, previa immersione delle falangi nell’acquasantiera con l’angioletto e segno della croce.
Mio nonno non era un tipo da baci. Una volta però mi ha dato un manrovescio così forte che ho ancora l’osso della tempia leggermente affossato, nel punto in cui ho battuto contro l’inferriata della porta. Avevo 14 anni, era domenica e stavamo pranzando: mio nonno a capotavola, poi mia nonna, mio padre e mia madre, io e mia sorella. Mio padre mi aveva vietato non so più cosa, ero in punizione forse per aver tardato la sera prima, non ne ho idea. Ricordo solo che papà mi disse una cosa del tipo “Quando dico no, è no!” e io mi alzai, mandai giù il boccone e gli urlai un bel vaffanculo. Al che si alzò anche mio nonno. Iniziai a correre verso la porta, lui mi raggiunse e mi prese per una spalla, prese la rincorsa col braccio libero e mi mollò un ceffone col dorso della mano. Per schivarlo andai a sbattere con la testa sulla porta.
Mio nonno ci sentiva poco: a forza di martellare il ferro il timpano si era usurato. Bisognava parlargli forte e capiva tutto.
Una volta, tornando dalla sua passeggiata fischiettando, stava attraversando la strada sulle strisce pedonali e uno scooter l’ha preso in pieno. Con due femori e una tibia rotti, un polmone bucato e un trauma cranico, dopo tre giorni di rianimazione, sei mesi in ospedale e altri due anni in una clinica geriatrica per la riabilitazione, mio nonno è tornato a vivere da solo. In mezzo a quei vecchi, diceva, si sentiva fuori posto. La memoria iniziava a fargli cilecca e questo era un gran vantaggio, perché quando finiva di leggere il suo libro di Agatha Christie ricominciava da capo, e ogni volta era una sorpresa.
A casa non c’era nessuno ad aspettarlo: mia nonna Rina era morta quindici anni prima, a faccia in giù sul tappeto del bagno per un attacco cardiaco, credendo che le fosse rimasta la cena sullo stomaco, mentre mio nonno saliva le scale con una tazza di camomilla calda.
È stato dopo l’incidente che mio nonno si è deciso a prendere una badante, Maria. Pochi mesi fa l’ho trovata su Facebook e l’ho fatta amica, adesso bada a un altro nonnetto.
Mia sorella, che assomiglia moltissimo a mia nonna Nina ed era la preferita del nonno, andava a trovarlo ogni sabato. Io, che abitavo a 200 km da casa sua, andavo una volta al mese. Poco prima che morisse sono andata col mio fidanzato a installargli il decoder. Visto che ci sentiva poco ascoltava la tv con un paio di grosse cuffie e aveva un lampeggiante installato sopra il televisore che si accendeva quando qualcuno suonava alla porta. La tv era il suo principale divertimento: guardava la tappa (il Giro d’Italia), La Vita in Diretta e tutti i film western o in bianco e nero che davano di pomeriggio. Quando c’era ancora mia nonna, dopo pranzo guardavano Quando si ama, una telenovela dove tutti si baciavano in continuazione con la lingua e io e mia sorella stavamo quasi tutto il tempo con le mani davanti agli occhi: ci diceva lui quando potevamo toglierle.
Il gelato preferito di mio nonno era la stracciatella. Nel caffè metteva sempre un goccio di Vecchia Romagna Etichetta Nera. Credeva in Dio e pregava molto. Brontolava sempre, polemizzava su qualunque cosa e aveva il vizio di battere le dita sul tavolino accanto alla sua poltrona, posizionato alla sua sinistra: per tutto il tempo ci esasperava con il tic tic tic della fede contro il piano di marmo. Non si poteva dirgli niente, dopo un secondo ricominciava.
In cucina, accanto all’orologio a pendolo, aveva due foto: entrambe ritraevano me e mia sorella in età diverse della nostra vita. Nella foto a sinistra, scattata ai primi di giugno del 1993, eravamo sedute sull’erba, nel giardino di casa nostra, vestite allo stesso modo: camicia bianca e gonna di panno verde bandiera lunga fino ai piedi. Eravamo pronte per sfilare alla Festa delle Ciliegie del nostro paese, vestite da Contadinelle. Io avevo 12 anni e mia sorella 10.
La foto a destra, in bianco e nero, è un primo piano di noi due dieci anni dopo: è l’unica foto che abbiamo dove si nota una somiglianza tra me e lei. Quando l’abbiamo ingrandita e incorniciata per darla al nonno, le ho detto, – dai, non è vero che ti hanno adottata – , come avevo cercato di farle credere per tutta la nostra infanzia.
Prima di morire, a mio nonno è venuto il cancro. Come capita a tutte le persone della sua età, la malattia è progredita lentamente. Nel suo caso, troppo lentamente. Il tumore era partito dal colon e la metastasi aveva raggiunto il cervello. Anziché spegnersi dignitosamente, come ci si augura, mio nonno ha avuto un rigurgito di vitalità. Gli è venuta la sindrome di Tourette, quindi bestemmiava Dio e la Madonna, che fino a un minuto prima aveva pregato. Andava in giro per la casa senza il bastone. Una notte ha chiamato mio padre, che è un medico, e gli ha detto arrabbiatissimo che voleva morire. Come se mio padre potesse farci qualcosa.
Questo vecchio di 94 anni, sopravvissuto a due mogli, alla guerra e a un incidente potenzialmente mortale, attaccato alla vita e alle gioie che poteva ancora dargli (le visite delle sue nipoti e il gelato alla stracciatella in cima alla lista), voleva morire.
Mia nonna Nina non voleva morire: voleva vivere e crescere suo figlio appena nato. Anche mia nonna Rina non voleva morire: quando siamo corsi a vederla morta, quella domenica all’alba, c’era un pentolone pieno d’acqua sul gas con le patate dentro. A pranzo ci avrebbe fatto gli gnocchi. Loro due sono morte contro la loro volontà, come succede a molti.
Mio nonno, invece, che voleva morire, non moriva. Ce la metteva tutta, ma non ci riusciva. Non era il tipo da suicidarsi, altrimenti credo che l’avrebbe fatto non appena la voglia di vivere gli era passata. Ci ha messo circa 6 mesi a morire davvero. Sei mesi durante i quali non siamo andate a trovarlo più spesso del solito, non ci siamo strappate i capelli, non l’abbiamo perseguitato perché cambiasse idea. Aveva 94 anni, cos’avremmo dovuto fare? Speravamo solo che non gli restassero altri dieci anni da vivere aspettando di morire. A volte penso che abbia vissuto così tanto perché lassù le mie due nonne non avevano nessuna fretta di riaverlo tra i piedi.
Il 9 dicembre 2010 è morto. Mia sorella mi ha mandato un sms per dirmelo. Io ero in vacanza all’estero e non sono andata al suo funerale, anche se organizzandomi avrei sicuramente trovato un volo in tempo. Non ho neanche pianto. Mia sorella si è tenuta la foto dove ci assomigliamo. Io, da qualche parte, dovrei avere uno dei suoi chiodi per ferrare i cavalli.
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Gaia Giordani, nata a Verona nel 1981, abita a Torino e lavora a Milano. Copywriter e blogger della primissima ora, ai tempi di Splinder era Copiascolla. Si guadagna da vivere facendo la web content manager e la consulente di comunicazione digital. Ha collaborato con Grazia, Cosmopolitan, Gioia, Donna Moderna, E Polis, Macchianera. Sta scrivendo il suo secondo romanzo in attesa che esca il primo.
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