storia vera

Ho vomitato nel bagno del cinema Anteo.

sirenetta

E’ un anno di Mondiali di Calcio. Per strada non c’è mai nessuno, a Milano fa caldo, e prima di andare a vomitare nel bagno del cinema Anteo sala 100, un angolo di riflessione midcult in pieno quartiere Moscova, stavo a guardare Italia/Messico a casa di uno.

[ Tutto questo succede quando ho 24 anni; a Settembre ne compio 25, a fine Settembre mi laureo, e a inizio Ottobre vengo ricoverata al pronto soccorso (non parlavo più, non vedevo più niente), e di quella notte ho ricostruito qualcosa – se non l’esperienza fisica o le motivazioni, almeno i sintomi e il tipo di cure prestatemi – perché, due anni fa, sono andata a chiedere se potevo avere una copia della mia cartella clinica.

E ora, il film di oggi. ]

Sono in ginocchio sul pavimento del bagno più piccolo della sala più piccola del cinema Anteo.

Prima ho guardato dieci, al massimo quindici minuti di Angela di Roberta Torre. All’ingresso mi hanno bucato la tessera delle Vie di Cannes a Milano, quest’anno è gialla. In sala non c’era quasi nessuno. Io ho guardato lo schermo, ma non ho visto niente, c’era la camera a mano che si muoveva tutta come l’avessero montata su un traghetto, c’era l’attrice rivelazione dell’anno 200x che parlava in siciliano con i sottotitoli, agitava banconote forse, e dopo dieci minuti ho capito che mi stavo per vomitare addosso. Ho sentito tutto che tornava su e mi schiacciava forte contro la gola.

E’ possibile – non dico sicuro, ma possibile – che questa volta mi sia successo di cominciare a vomitarmi in bocca, prima di vomitare davvero.

La sala 100 è la più piccola dell’Anteo. E il bagno di servizio della sala 100 è fatto in scala, per cui: è il bagno dei Puffi. Un quadrato piastrellato, senza finestre. C’è letteralmente solo un cesso senza anticamera.

Alle 15:45 di un Giugno di Italia/Messico, la porta è chiusa (credo) e ci sono io in ginocchio, con la faccia sopra il buco, che a questo giro non devo infilarmi due dita in bocca e fargli fare dentro-fuori-dentro-fuori-dentro-dentro, né sincronizzare il mio movimento con la musica della scena della doccia di Psycho perché la mia mano sia più sicura nel pugnalarmi la gola, perché le coltellate siano più profonde e più vere. No, stavolta faccio appena in tempo a chiudere la porta, se la chiudo, e aprire la bocca.

La prima a uscire è la birra, ma poi continua a uscire roba. C’è la colazione di stamattina, c’è acqua, sigarette, acqua, altra acqua, da dove vengono queste cose?, poi arriva il cibo di giorni e di settimane e di mesi. Io devo solo tenere gli occhi aperti e accettare.

La mia gola diventa il tramite: più forte dello schifo, dell’odore e dell’acqua che mi esce dagli occhi, io sento che tutto questo non finirà mai.

Ci vado abbastanza vicina, stavolta, a questa assenza di fine. Continuerò a vomitare cose per i prossimi nove minuti.

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Ho 24 anni. Mi sto per laureare in Storia del Cinema. Vivo a Milano, nella casa pulita dei miei genitori, e frequento, senza alcun merito, un piccolo giro di registi pubblicitari che vogliono fare i registi di film. Almeno, uno di loro ci sperava tanto. Era amico di Alfonso Cuaron.
Sono andata a vedere Italia/Messico a casa di uno di questi registi. Non l’amico di Cuaron, un altro. Però – oggi – c’era anche Alfonso Cuaron, che guardava la TV e parlava in inglese con l’amico di Cuaron.

Questo amico, il regista pubblicitario che lo conosceva bene, sapeva un sacco di aneddoti su Cuaron. Roba grossa. Ad esempio: Cuaron odiava David Fincher. Lo considerava un pubblicitario del cazzo, uno shooter qualsiasi, e se passava in Italia andava a vedere i suoi film – suoi di Fincher, intendo – perché diceva che tanto in italiano non capiva i dialoghi e poteva guardarsi i movimenti di macchina e basta.
Credo fosse una scelta politica.

Oggi c’era Italia/Messico su una TV a schermo piatto, non tanto grande. C’era un tavolo col ripiano di legno tutto pieno di spaccature. Non c’era niente da mangiare, se c’era io non ho mangiato. A un certo punto Italia/Messico è finita – male, un pareggio o ha perso il Messico – e non avevo niente da dire. Allora ho fatto scattare il piano B: se non fossi stata scelta, lì dentro, potevo andare a vedere i film di Cannes all’Anteo, tutta giovane e ancora in vita, alla strafaccia di chi non sapeva, ah, riconoscermi.

Perciò: ecco Violetta camminare con andatura non pervenuta lungo i 950 metri tra via Bramante e via Milazzo, ecco Violetta stringere in pugno il cartellino giallo con due/tre caselle forate come il taglierino per spaventare il droghiere. Ecco Violetta accomodarsi su una poltroncina dell’Anteo Sala 100, la più piccolina tra le sale, dritto e in fondo e poi tutto a destra, avendo cura di depositarsi in una fila vuota.

Al cinema non c’è nessuno, per strada non c’è nessuno.

Questo succede in una stagione in cui TUTTI i registi del MONDO fanno solo DUE  tipi di film: film sulla morte del figlio, e film sul disagio criminale/terrorista girati con la camera a mano che fa dundundundundun. Tutti, giuro. Siete troppo giovani per ricordare, ma io me lo ricordo. (Tutti i registi a parte Alfonso Cuaron. Oh, sentite, almeno lui ci provava.) Per dire: X anni dopo, quando stavo già bene, io vidi United 93, e lo vidi in una saletta climatizzata a dovere; ma quando poi lo stesso film venne proiettato a ridosso dell’uscita regolare, nel cinema Santa Maria Beltrade, un ex parrocchiale con le sedie di legno sette/otto isolati dopo la Stazione Centrale dove facevano le anteprime stampa sotto uscita a Milano (se le fanno ancora lì, non lo so; le fanno ancora lì?), ecco: quando proiettarono United 93 lì dentro, la sala scoppiava di invitati, il condizionatore era rotto, era Giugno andante, e qualcuno disse minchia si stava meglio sull’aereo, e quando poi me lo riferirono io dissi, beh, battuta un filo infelice, dai, e ora io direi ma minchia sì, almeno quelli sono morti per un motivo.

Che poi, tra l’altro, oggi che sto bene, quando sento qualcuno parlare di camera a mano da vomitare, tutte le volte penso sì, però, lo sai, io ho vomitato veramente, per via di un eccesso di camera a mano. Come la mettiamo adesso. Però non lo dico, non a voce alta almeno, altrimenti immaginatevi l’alienazione.

Sono passati cinque minuti della vostra vita, e io sto ancora vomitando nel bagno del cinema Anteo.

Due parole sul cinema Anteo, che non solo si chiama così, ma secondo Google deriva dal greco antaios e significa «ostile», «opposto», l’onomastico cade il 17 gennaio. Il cinema Anteo, a Milano, è il tempio di quello che alcuni chiamano midcult, e voi potete chiamare il gusto suggerito con veemenza alla borghesia medio-piccola in una grande città. All’epoca dei fatti, il cinema Anteo programmava: commediole francesi, i bambini morti, la Shoah, Ken Loach a Natale fisso, un po’ di documentari sul popolo bue, i film di Silvio Soldini, i film dove la macchina da presa indugia sulle spine Einaudi in evidenza nelle librerie dei protagonisti e sulle stampe di Klimt alle loro pareti, e due volte a settimana la rassegna casualissima di cose in lingua originale proiettate a sala vuota. Avete capito? Tutti film magari cari a chi li realizza, magari con impeccabili recitazioni dialettali, e che magari riempiono bene la mezza giornata di chi ci va, ma tutti, inesorabilmente, antei. Per essere proiettati all’Anteo, ma anche per prendere posto all’Anteo come personaggio del presepe vivente dell’Anteo e di quello che rappresenta DIO CRISTO, bisogna far sentire intelligente l’occhio di chi guarda. Una diagnosi di anoressia recapitata via mail. C’è anche una bella libreria annessa al cinema.

Almeno, c’era. Una volta. (C’era anche il ristorante una volta.) Io ci ho sempre comprato i peggiori libri, mi sentivo indegna di toccare il resto, e anche, nel frattempo, troppo superiore alla visione materiale di una supplente di liceo.
Tra tutti i bagni di tutti i cinema possibili, è questo in cui ho scelto di vomitarmi addosso, a 24 anni.

Torniamo un attimo a Italia/Messico, e alla casa dove guardavano Italia/Messico.

In certe case di mezzi pubblicitari mezzi artisti milanesi, le volte che ci entro, spesso molto mal vestita e spesso con una borsa rossa – e in una di queste case, la stessa estate, forse a Luglio, mi si strappa il vestito, resta impigliato in un chiodo del terrazzo, e vado in giro tutta la sera con un taglio lungo la schiena, dalle spalle all’elastico delle mutande, ed è bellissimo – dicevo: in tutte queste case milanesi con il parquet delavato per terra e le pareti bianche e le librerie non dell’IKEA io entro sperando che la notte in questione si dimostri quella risolutiva per tutta la mia vita. Incontrerò il mio uomo.

Però, vedete: io non ho niente da dire. Sono una studentessa universitaria, poco lavoro e nessun progetto, scarsa bellezza fisica se si esclude la giovinezza, e nessuno la conta, quella; non c’è alcuna vera ragione per cui dovrei avere i talenti che qualcun altro dovrebbe intuire. Chi è lei. Da dove viene. Dove va.

Aspetto sempre che sia qualcuno a infilarmi una mano in bocca e, trrrr!, cavarne fuori una fila di diamanti. Aspetto di essere vista.

Ma io non sono mai vista, e io non ho nulla da tirare fuori.

Io sono giovane, sgonfia.

E allora, a un certo punto, io vado via.


Sono in ginocchio sul pavimento del più piccolo bagno del più piccolo cinema. Ho dentro dieci chili di meno, e non so come li ho persi. Non riesco a guardare come ho ridotto il bagno; anni dopo mi chiederò se mi sono vomitata sull’orlo della gonna, se mi è rimasto qualcosa tra le dita dei piedi, tra il cinturino e la pelle.

Torno in sala, recupero la mia borsa da sotto il sedile, cerco la poltrona dove stavo prima, raccatto borsa, abbonamento e striscio fuori. Mi butto per strada. Qui dentro non posso restare.

Questa vergogna non passerà mai.

Fuori è tutto bianco. La luce mi entra negli occhi come una bomba.
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Non lo so, dove sono andata, dopo. Forse a casa dei miei genitori, dove dovevo cominciare a scrivere la tesi. Sono quasi sicura di aver camminato un’ora sotto il sole, con il bianco addosso, pensando devi espiare, sudala fuori, pensando che non potevo fare altro. (E i tram sono per i vincenti, magari.)

Nel mese di Giugno 200x avevo una gonna bianca e rossa a fiori, ma poteva essere quella grigia che non posso più mettere, è saltato l’elastico. Avevo, secondo me, due sandali di plastica trasparente. Una notte, quando stavo già bene, mi ci si è infilata dentro una scheggia di vetro, un bicchiere.

Se lungo la strada qualcuno mi ha visto, ha capito – gli occhi gonfi, i capillari spaccati; le prove viventi del mio stato – nessuno ha detto niente.

Non ci ho mai più rimesso piede, al cinema Anteo. Mai per un sacco di anni, davvero. L’ho evitato con ogni cura, specialmente la sala 100, che nel frattempo avranno ribattezzato bijou o Karlovy Vary, e quando ci sono dovuta tornare, per ragioni legate al lavoro che ho fatto quando stavo già bene, non l’ho mai detto a nessuno.

La prima volta che ci sono tornata, però, sono andata subito a vedere com’era messo il bagno. Era sempre piccolo, sempre quadrato. Nessun segno di lotta.

Ah, ultima cosa. Giusto. Ragazzi, questa è brutta.

Il giorno di Italia/Messico, prima di uscire dalla casa di Via Bramante, io non ho detto un cazzo al famoso regista messicano. Ma alla fine della partita sono ubriaca, e non ho nulla da perdere, e non ho niente tra le dita, allora saluto Cuaron e farfuglio mi è piaciuto tanto la piccola principessa, film di cui avevo visto, allargo, dieci minuti su Sky, ma che il regista italiano diceva Cuaron considerasse il suo film più bello. E Cuaron dice thank you e mi guarda, lo giuro, con quella pietà/sollievo che si prova nel vedere la vita di qualcun altro allontanarsi molto in fretta dalla propria. Trenta secondi dopo il mio uscire da quella porta, lui avrà telefonato ai suoi figli solo per dirgli che gli voleva bene, chiedere se avevano mangiato.

Benissimo: quando stavo bene da otto mesi, e mi stavo facendo il primo anno di vera espiazione, sono stata seduta intorno a un tavolo con dieci/dodici giornalisti in una sala di un albergo di Venezia, mentre Alfonso Cuaron ci parlava di I figli degli uomini. Io gli ho fatto una domanda, piccola, e lui mi ha guardato. E ho capito che lui stava capendo che mi aveva già vista da qualche parte – strizzava un po’ gli occhi, co-sì – e ho sperato che non riuscisse MAI a ricostruire dove, però una scheggia era stata riconosciuta.

Mentre scrivo, oggi, io spero con tutto il fuoco del mondo che questa persona non sia riuscita, lì e allora, a rimettere insieme i pezzi. Lì e allora è la chiave: mezz’ora dopo eravamo già tutti e due da un’altra parte.

Violetta Bellocchio sta curando Abbiamo le Prove. Il suo prossimo libro esce a marzo 2014 con Mondadori ed è più o meno tutto così. 

 

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