storia vera

La cinquanta falsa.

Monopoly-Money

Nella piazzetta vicino alla vineria in cui lavoro c’è un muretto. Su questo muretto stanzia un gruppo di giovanotti del quartiere che ogni tanto viene a farsi una birretta, un amaro o una sambuca da me, senza però mai sedersi ai tavolini. Hanno il muretto, loro. Questi ragazzi sono sempre molto precisi: se gli manca qualche spicciolo non pietiscono mai lo sconto, e quando sono io a dirgli di non preoccuparsi e portarmeli un’altra volta onorano sempre i loro debiti, per piccoli che siano. Da parte mia cerco sempre di accoglierli al meglio, un po’ come mi piace fare con tutti i clienti perché si sentano un po’ coccolati: ricordo le loro preferenze alcoliche, anticipo i loro desideri, e mi intrattengo a parlare del più e del meno quando avverto che la voglia di chiacchierare è reciproca. É mestiere, certo, ma a farlo con amore non si impara neanche con l’esperienza di una vita.

Questi bravi pischelli però non sanno che, al contrario degli altri avventori, mi ispirano gentilezza per un secondo fine segreto, decisamente più opportunistico che far bene il mio lavoro.

Siccome sono molto più inseriti di me, essendoci nati, in un quartiere dove io vivo solo da 11 anni, immagino che conoscano tutti, dunque anche i delinquenti, con cui magari sono andati a scuola, o giocano a calcetto il mercoledì sera, chissà. E insomma mi sono fatta questo film mentale di me che tornando a casa a piedi di notte dopo aver chiuso la vineria, vengo aggredita da un gruppo di malviventi (tipo Banda Bassotti), che vuole rapinarmi. Ma ecco che i pischelli accorrono dal muretto in mio soccorso e dicono ai rapinatori di lasciarmi stare, che loro mi conoscono e sono una precisa, una che lavora, mica una radical chic impaccata di soldi.

Lo so, questo sogno sfiora l’apologia del meccanismo mafioso e come se non bastasse lascia quasi intendere che invece rapinare un radical chic impaccato di soldi sia giusto, ma è immaginazione! È la Banda Bassotti! Mica significa che desidero davvero subire un tentativo di rapina dopo il quale rimarrei traumatizzata a vita! Semmai è la manifestazione di un insulso anelito di emancipazione dal privilegio borghese, di un ingenuo desiderio di sentirsi accettati e anzi portati in palmo di mano da persone che non ti vedono come un nemico solo perché hai studiato più di loro, ma che riescono a vedere in te, come lo vedi tu in loro, che il livello di istruzione non c’entra niente con l’essere o no brave persone.

Peccato che a un certo punto, come un fulmine a ciel sereno, sia accaduto un fatto di una tristezza inenarrabile che ha sepolto una volta per sempre tutte queste mie feconde epopee immaginarie.

Ero da sola in vineria, saranno state le dieci di sera, classico momento di stanca tra la folla dell’aperitivo e quella del dopocena. Uno di questi ragazzetti è entrato, ha preso una Ceres dal frigo, e mi ha consegnato una banconota da cinquanta euro… stampata sulla carta igienica.

Non potevo crederci… Cinquanta euro falsi proprio A ME! Alla paladina dell’uguaglianza! Proprio lui poi, a cui una volta avevo prestato un cacciavite per riparare il motorino! Lo conoscevo bene ed era troppo sveglio per non essersi accorto prima di me che quel pezzo di carta valeva meno di una banconota del Monopoli, ma davvero, ancora non potevo credere che stesse tentando di fregarmi.

Concedendo dunque al giovane paraculo il beneficio di un dubbio insostenibile, ho finto di esitare:

– Ma… che strana questa cinquanta, sarà vera?

E il ragazzetto:

– E certo. Me l’ha data mi’ padre poco fa!

Come no. E ti ha detto pure di provare a piazzarla alla vinaia che sta sempre a cantare con la testa fra le nuvole e che ci scommetti che la prende per buona? Maledetto. Ha pure provato a far leva sull’autorità paterna. Forse era già sufficiente per mandarlo a quel paese, ma non ero sicura, volevo sapere se mi stava prendendo per il culo o se davvero (davvero?) non se ne era accorto. E allora gli ho piazzato la banconota sul bancone, sotto il naso, e gli ho detto:

– Guarda tu, non ti sembra sospetta?

E lui, stavolta sì, con la faccia come il culo:

– Ma de che, a me me pare popo regolare.

Quel che è troppo è troppo. Ho preso una banconota da cinquanta dalla cassa e l’ho messa a fianco della sua:

– Regolari dici? Ma non vedi che sulla tua ce sta la firma de Topolino?

A quel punto, spalle al muro dell’evidenza, ha capitolato:

– Oddio scusa!! Oddio che figura de merda… Scusa!!

Ed io, fingendo comprensione ma in pratica dandogli del coglione:

– Figurati, può capitare di non riconoscere subito una banconota falsa.

Per poi aggiungere, in caso non ci avesse pensato, questo grandissimo pezzo di merda:

– E poi nel dubbio preferisco sempre non accettarle perché se poi il titolare le trova dopo che ero di turno io ce le devo mettere di tasca mia.

Ma niente, neanche il senso di colpa può scalfire l’orgoglio di un pischello di borgata, perché inforcando rapidamente l’uscita ha avuto il coraggio di aggiungere:

– Mannaggia oh, anzi, sai che c’è? Grazie che me l’hai detto!

Ma prego. Lurido verme. Feccia umana. Se tra tanti locali di questo quartiere vieni proprio qui il punto è che hai scelto me, e mi hai scelta perché la mia gentilezza di questi anni l’hai scambiata per ingenuità e l’hai ricambiata con un tentativo di frode.

Ah, ma se fossi tornato al tuo muretto a vantarti tra i tuoi amici con la Ceres bella fresca e tutti i soldi del resto, io lo so cosa sarebbe successo! Ti avrebbero preso per le orecchie e costretto a tornare insieme a loro, a dirmi che t’avevano fatto uno scherzo, quindi mi avresti ridato i soldi e pagato la birra, perché starò sempre a cantare e a leggere quei cazzo di libri dietro il bancone, ma sono una brava persona, e le brave persone bisogna rispettarle, non prenderle per il culo.

Dopo quella sera il pischello della cinquanta falsa non è più tornato in vineria, però ogni tanto lo incrocio in giro per il quartiere e fa finta di non vedermi, mentre i suoi amici di muretto continuano a venire a bere da me come sempre. Ma mi sono accorta che dal fattaccio qualcosa è cambiato. Ho smesso di idealizzarli come il gruppo di pischelli che un giorno mi consegnerà la coppa dell’emancipazione dal senso di colpa borghese per aver potuto studiare e farmi quel minimo di cultura grazie alla quale (o malgrado la quale) continuo a scrivere. Adesso non li vedo neanche più come un gruppo. Mi accorgo sempre se uno di loro è un po’ troppo tracotante, se un altro chiede il permesso prima di aprire il frigo e prendersi da bere da solo, se un altro ancora fa finta di accorgersi solo al momento di pagare di non avere abbastanza soldi o se un altro pensa sempre a riportarmi i bicchieri vuoti al bancone: sono tutti diversi, come le persone, qualsiasi livello di istruzione abbiano raggiunto, qualsiasi mestiere facciano, qualsiasi tipo di bevanda alcolica preferiscano. Se non altro il paraculo della cinquanta falsa mi ha insegnato che va anche bene farsi i film mentali, ma è sempre meglio evitare di proiettarli sulle persone vere, buone o cattive che siano, perché come niente si trasformano in pregiudizio che si sa: è il peggior filtro in assoluto con il quale provare a interpretare la realtà.

Carolina Cutolo  è autrice di Pornoromantica (Fazi editore, 2007) e del romanzo Romanticidio (Fandango Libri, 2012). Fornisce consulenze legali gratuite su contratti di edizione per il blog Scrittori in Causa e da tre anni organizza a Roma il concorso letterario Il Racconto Più Brutto.

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