storia vera

Mi sono rassegnata ai miei polpacci.

Photo Credit: slipperykate via Compfight cc

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Sulle cosce possiamo fare quello che vuoi. Liposuzione, mesoterapia, bendaggi bollenti, bendaggi gelati, pietre laviche, fanghi del Mar Morto, cavitazione, endermologie, linfodrenaggio, torture medievali, spade laser; possiamo passarci sopra la palla di Tron che dice “sì” e “no” e vedere che succede. Possiamo asportarti i culotte de cheval e mandarli nel 2055 con la Tardis. Male che vada, li riduciamo col machete.

Sui polpacci, invece, non c’è un cazzo da fare. È muscolo. Rassegnati.

Ho passato la vita a rassegnarmi ai miei polpacci, ma mi ricordo della mia prima volta. Avevo undici anni e mi ero messa una gonna cortissima per andare a scuola. Era di lana grigia e pungeva un poco, ma mi faceva sentire una bomba sexy secondo quel che può essere il concetto di sexy a undici anni. Orbene, con la mia gonna sexy fui interrogata in matematica e feci la solita fatica mondiale per scrivere il risultato di due moltiplicazioni alla lavagna. La professoressa mi gridava in testa come diavolo potessi ignorare quanto faceva, che so, 16 x 7 quando sentii ridere dai banchi a cui, per forza di cose, offrivo il lato B. La risata apparteneva alla mia amica Baffuta (non è il suo vero nome).

Baffuta aveva i baffi ma passava per una delle ragazze più bone della classe. Ai tempi gli amici uomini mi chiedevano consigli su come conquistarla e io avevo finito per accettare l’evidenza: piace quel che piace, e lei piaceva parecchio. La cosa mi indispettiva narcisisticamente, ma non più di tanto: ci tenevo che Baffuta fosse dalla mia parte perché in qualche maniera rappresentava un capitale sociale che non possedevo. Forse lei, con me, faceva lo stesso ragionamento; ero un maschiaccio simpatico e grassottello con una certa utilità, per esempio far da tramite tra i quattro o cinque malcapitati col pisello nell’istituto di monache dove stavamo e un milioncino di noi, di femmine. Fatto sta che l’amicizia, a undici anni, si tira in ballo piuttosto spesso e Baffuta – per quanto mi riguardava – era una mia amica.

La mattina dell’interrogazione: mentre mi sporgevo nella mia graziosa gonna corta, umiliata da una materia che non c’era verso che capissi, sapevo cosa stava succedendo. Baffuta, che pure era mia alleata, si stava prendendo gioco di me. Tornata nel banco con il mio bell’insufficiente, contro cui non potevo fare nulla, le chiesi il perché di quella risata. Era perché non sapevo le tabelline? Perché dovevo contare quanto fa 8 più 16 sulle dita? No. Mi rispose che le avevo fatto tenerezza con le mie gambotte scoperte, che avrebbe voluto dare un morso ai miei polpacci: sotto le calze nere sembravano morbidi e succosi come quelli di un maialino. Dicendo tutto questo, mi diede un pizzicotto sulla guancia. Io, il maschiaccio simpatico, portavo sempre i pantaloni più larghi possibili, magari a zampa che – non essendo un metro e settanta – mi stavano pure uno schifo: per una volta avevo svestito la parte ed ero stata sanzionata, come si dice. Una volta è abbastanza. Bisogna rispettare i propri stereotipi e in quell’occasione mi ero permessa di esplorare il mio potenziale di ragazza, già abbastanza negletto. Ma questo me lo dico adesso, ovvio. Alle medie non si ragiona in questi termini, per quanto illuminati possano essere i tuoi amici grandi che ascoltano la musica cazzuta, e per quanto colti e bravi e gentili possano essere i tuoi genitori. Alle medie ci si limita a mangiare la foglia.

Le gonne al ginocchio ho iniziato a portarle quasi dieci anni più tardi grazie a una meravigliosa scoperta: gli stivali. Non tutti mi stanno, certi non si chiudono e con quei cilindri neri i polpacci grossi si vedono lo stesso, ma la sensazione è che il punto debole sia un poco meno scoperto. Dalla gente ho imparato ad aspettarmi una cortese disattenzione: io mi metto un vestito perché mi piace (d’inverno, con le calze; d’estate solo vestiti lunghi e vari pantaloni) e tu non mi devi prendere per il culo perché le mie gambe non sono costruite secondo la proporzione aurea. Ci arrivo anche da sola.

In qualche occasione ho comunque osato mettere una gonna corta, esponendomi (grazie a una certa dose di “che mi frega”) al pubblico ludibrio. Nel 2008, quando mi sono innamorata di mio marito, pesavo 51 chili (ora ne peso circa 56) e mi sono presa delle licenze perché, diamine, se mi si vedevano le ossa ovunque anche i polpacci dovevano aver perso qualche centimetro. Così una volta ho fatto l’infattibile: ho violato la mia rassegnazione. Mi sono messa un vestito appena – proprio appena – sopra il ginocchio, ho lasciato gli stivali ai piedi del letto e infilato – giuro – delle décolleté coi tacchi alti. Ai tempi il mio nick da dj era MarinaP (nel frattempo ho imparato a non lasciare a casa il resto del cognome) e credo che sia stata quella la circostanza in cui ho guadagnato il grazioso epiteto di MarinaPolpaccina. Tenero, vero? Infatti, mica sto dicendo niente. Ha fatto sorridere pure me.

Marina Pierri collabora (tra gli altri) a Rolling Stone, Riders, Wired e Pig Magazine . La potete trovare su Twitter.

Photo Credit: [auro] via Compfight cc

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