I personaggi di questa storia sono quattro: il ragazzo, il cane, il ragazzino, e io.
Il ragazzo mi chiamava ragazzina.
Il posto è il Portogallo, l’estate è quella del 2006.
Il ragazzo lo conoscevo un po’ meglio da un paio di settimane, ci si riconosceva entrambi come parte di quella tribù di soggetti che passa l’estate in città a Lisbona. Io e la mia amica eravamo là da circa un mese, l’idea era di stare là per un po’, lavorare, scrivere una tesi di laurea ciascuna, e ogni tanto andare al mare. Forse ero lì solo perché non volevo stare a Milano. Avevamo appena cambiato casa – la prima si era rivelata piena di topi – e ci eravamo spostate in un paio di stanze libere a casa di un amico che abitava in Alfama, in una casa con un patio illuminato di quella luce che c’è solo a Lisbona, da dove si vedevano i turisti più in alto che da una terrazza fotografavano i tetti tra cui spuntava il nostro tavolo per la colazione. Con quella luce lì, è impossibile scrivere la tesi.
Avevo riconosciuto il ragazzo perché due anni prima abitava con una mia amica, era quello del cane: mi ricordavo di quella casa non solo perchè era la più vicina al Barrio Alto, ma soprattutto perché era l’unica casa Erasmus dove ci fosse una bilancia; in quelle due settimane continuavamo a incontrarci in giro, per caso, dopo un po’ avevamo iniziato a darci dei finti appuntamenti vaghi – “ci vediamo al mare”, “ci vediamo domani sera” – , sapendo benissimo che tanto si sarebbe finiti nello stesso posto.
Il ragazzo è di Roma periferia, assomiglia un po’ a Graham Coxon e un po’ a Elio Germano, quell’estate ha trentadue anni, che lo fanno sembrare molto più grande delle persone che frequento. Il ragazzo è divertente e sorride sempre. Il cane risponde solo se ci parli in portoghese. Lui e il cane stanno a Lisbona di passaggio, dice, ma in realtà stanno per lasciare una casa in affitto; per sopravvivere ogni tanto fa il facchino, monta palchi per i concerti all’aperto tra il Portogallo e la Spagna, e per il resto è il soggetto che ti chiama all’ora dell’aperitivo, mai spudorato, per capitare più tardi a cena. La cosa non mi disturba più di tanto; un po’ è che io sono in vacanza, un po’ è che la tribù di soggetti che passano l’estate a Lisbona campa quasi tutta (me e amica compresa) presentandosi all’ora dell’aperitivo a casa altrui sperando salti fuori una cena. Un’intera città che sopravvive solo sull’usanza di cenare tardi.
Non mi ricordo bene quando siamo partiti, se era il giorno dopo la festa o qualche giorno dopo; sono sicura che alla festa il ragazzo c’era, c’è una foto che testimonia come abbia salvato il barbecue (suggerimento: se siete in tre e nessuno sa grigliare, non organizzate una grigliata). La festa è accompagnata dalla collezione di vinili (esclusivamente usciti tra il 79 e l’89) di un altro amico, poi finisce con un concerto live di musica balcanica, per qualche motivo, che riassume comunque come sia andata quell’estate: parecchio ignorante, ma con l’idea di trovarci qualcosa di buono.
Comunque il ragazzo deve partire per il nord; c’è un festival dove pensava di poter lavorare, ma alla fine no, però qualche giorno dopo deve essere nel nord della Spagna, è inutile che lasci il cane a Lisbona, e tanto è senza casa. – Venite anche voi – , ci dice. Non so se lo dica per sfidare noi due milanesi perditempo o perché ha capito benissimo che potremmo essere i tipi, ma gli dico, perché no, solo io, che comunque la mia amica ha una storia in città.
La macchina è una Polo targata Roma. Contiene il ragazzo, il cane, me, tre cassette di Rino Gaetano e tutto quello che aveva in casa. Perché Rino Gaetano, gli chiedo, perché era uno a posto, e aveva capito tutto, mi dice lui.
La destinazione è un posto sperduto tra i monti del nord che si chiama Praia Fluvial, spiaggia fluviale. Il festival dura quattro giorni. In due, io e il ragazzo abbiamo all’incirca settanta euro. Cinquanta se ne vanno alla prima salita che troviamo, perché l’unico modo che abbiamo per affrontarla con quella macchina è fare tutta la discesa precedente così veloce che i vigili ci fermano proprio a valle, annullando tra l’altro l’effetto della rincorsa.
Sul cruscotto c’è un cappellino, o una sciarpa, della Lazio. La curva della Lazio è la cosa che più gli manca di Roma, mi dice, cosa che mi confonde un po’, ma io Roma la conosco poco. Sta in giro da qualche anno, ma a Roma ci torna, quando finisce i soldi, di solito. Mi racconta che per portarsi via il cane dal Portogallo, per metterla su un aereo, ha dovuto sterilizzarla, metterla in quarantena, comprare un trasportino che occupa metà di quella sgangherata Polo, per quello poi è ritornato in macchina. Mi racconta di questa tizia hippie di cui si è innamorato a una festa, e non si era mai innamorato così prima, ma per lei farebbe qualsiasi cosa. Non sa nemmeno se si rivedranno.
Mi racconta degli amici di Roma, mi dice di un ragazzino a cui si è affezionato, dice, perché è un po’ come lui, uno che cerca qualcosa nella vita, tanto che dopo qualche mese che era a casa sua non gli ha chiesto di pagare l’affitto. – Comunque – , aggiunge, – ho capito che io l’affitto non lo pago più a nessuno – . Il ragazzo dice che quello che gli interessa è trovare la chiave, il granello di sabbia da cui inizia tutto, quello che dà senso a tutto. Ha deciso che vuole solo viaggiare, spostarsi, fermarsi solo quando finisce i soldi, per ricaricare e ripartire.
Io ho venticinque anni, mi sto laureando in Belle Arti, che è il genere di cosa che ti fa sentire molto in imbarazzo se la dici a qualcuno che si alza all’alba per mungere le vacche, per dire, ma a Lisbona è bellissima e interessante e molto bella, e l’idea di lavorare solo per potersi mantenere a poco a poco, girando l’Europa con una macchina sgangherata e un cane, in quel momento mi sembra la cosa più invidiabile che io abbia mai sentito.
Perché no, penso, e penso anche, se sei arrivato a questa conclusione, forse il granello di sabbia l’hai già trovato. Eppure io non potrei farlo, penso. Ero partita per il weekend con pochi soldi in tasca sapendo che sarebbe stato low cost, ma non riesco nemmeno a spiegarmi perché non mi sia portata il bancomat. Ho gli occhiali da sole belli. Sto studiando con l’intenzione di fare un lavoro che mi piaccia, perché se non ti piace quello che fai, che brutta vita, ma forse anche il suo è un buon argomento. Invidio la sua capacità di dire, ehi, guarda che si può fare.
Il primo giorno del festival piantiamo una tenda diversa in mezzo a decine di tende uguali, beviamo vino, fumiamo. Scopriamo presto che senza braccialetto del festival siamo obbligati a restare nell’area camping per sempre, ma anche questa di cosa non mi disturba più di tanto perché la spiaggia fluviale è effettivamente bellissima, abbiamo un cane da far correre, da dietro le piante si sente la musica. Arriva il diluvio universale, come in ogni festival che si rispetti; i portoghesi, apparentemente colti impreparati, comprano centinaia di ponchi antipioggia dagli unici tizi del festival che vendono ponchi antipioggia, così sono tutti vestiti uguali tranne me e il ragazzo. La sera ci chiudiamo in tenda. Quando mi mette le mani sulla schiena, è come se studiasse le mie ossa. Non diciamo una parola, e la cosa non mi disturba affatto.
Il pomeriggio dopo ci addentriamo nella giungla di tende per trovare i nostri simili, altra gente senza biglietto del festival che a differenza nostra è accampata per bene, con tanto di tavoli, sedie, angolo bar. Davanti a un bicchiere di vino discutiamo la possibilità di comprare dei funghi. Il ragazzo è esperto. Dice che in generale i funghi sono un po’ inaffidabili, non sai mai cosa aspettarti, quindi non si dovrebbero prendere con persone che conosci poco o di cui non ti fidi, perché si crea una condivisione immaginata. – Tu me sembri a posto – , dice lui, – sei una delle persone giuste.
Ma rimandiamo al giorno dopo, per via della pioggia torrenziale, e perché il giorno dopo arriva il ragazzino. Quando mi avventuro fino alle docce del campeggio il cane mi segue, protettiva. Colti da pietà vedendoci mangiare per la terza volta in due giorni pasta aglio olio e peperoncino, i vicini di tenda braccialettati a cui abbiamo chiesto di comprarci le sigarette ci offrono anche del pane e due bottiglie di vino. La sera fumiamo seduti nell’erba bagnata del sentiero che gira intorno alla conca dove c’è il palco, mentre Morrissey canta stop me if you think that you’ve heard this one before. – E’ strano – , mi dice il ragazzo, – qualche anno fa avrei pagato il biglietto per vedere Morrissey – , e canticchia, come se avesse intuito che era l’ultima cosa che mi aspettavo di sentirgli dire.
Il giorno dopo arriva il ragazzino, che in qualche modo è riuscito a raggiungere quella conca di rocknroll in mezzo ai monti, e scopro che il ragazzino ha la mia età e uno zaino di quelli con cui girare l’Europa. Lui guarda il ragazzo con un’ammirazione genuina, e lui davvero non gira il mondo come il ragazzo solo perché non può, e non perché in fondo non è sicuro di volerlo come forse ho capito io.
Per dire quanto sono esperta io, la mia prima reazione ai funghi, dopo dieci minuti, è la dichiarazione di non riuscire a digerirli. La mia seconda reazione già non me la ricordo, annebbiata, ma ricordo la sensazione di far capire dei lunghissimi ragionamenti agli altri due anche dicendo ad alta voce solo la conclusione, come se in qualche modo ci fosse davvero una condivisione di pensiero, come se a differenziarci dagli altri intorno non fosse solo il colore diverso delle nostre giacche antipioggia portate con noi e non comprate là.
So che in quel momento, in quella spiaggia verdissima, tra gli alberi, mi sembrava di non poter volere mai altro nella vita se non un bosco, un cane e degli amici. So di non aver mai riso così tanto, tanto che abbiamo cercato di trascinarci quella sensazione addosso fino a notte inoltrata, mentre ormai l’effetto era finito e sotto nella conca Karen O cantava they don’t love you like I love you.
Anche il giorno dopo i vicini di tenda ci hanno rifornito ancora di pane e vino e pappa per il cane (che ha schifato, abituato a vivere di avanzi freschi del macellaio), e parte della giornata l’abbiamo passata a cercare di farci passare dei braccialetti dai portoghesi in partenza, solo per essere fermati all’ingresso del concerto. Non sapevamo neanche chi suonasse. Quella sera ho pensato, questo weekend è stata una cosa bella che non farò mai più, il ragazzo partirà per la Spagna con il ragazzino e io tornerò a Lisbona, dove continuerò a non scrivere la tesi, tornerò anche a Milano, dove inizierò a scrivere la tesi.
Il giorno dopo recupero al volo un passaggio da dei portoghesi che tornano a Lisbona, così al volo che faccio a malapena in tempo a salutare il ragazzino e il ragazzo. Non ci diciamo nulla, ma ci capiamo, è come se ci stessimo dicendo buona fortuna. Poi mentre mi allontano, mi dice, ci vediamo lì. Il cane mi segue fino all’ingresso del parcheggio, come per richiamarmi, e mi spezza il cuore.
I portoghesi che mi riportano a Lisbona hanno una macchina d’epoca che funziona con un tagliaunghie al posto della chiave e ogni cinquanta chilometri bisogna rimettere l’acqua nel radiatore. Il mio telefono è scarico da due giorni e non ho le chiavi di casa, e dico ai portoghesi di lasciarmi al Bairro Alto. – A serio – , dicono loro, davvero, sì, e infatti dopo quello che mi sembra un viaggio interminabile a mezzanotte di quella domenica di agosto sono finalmente in centro, e Lisbona mi pare il posto più civilizzato che io abbia mai visto, e trovo la mia amica nel primo posto dove vado a cercarla.
Dopo un mese di altre avventure mi sono seduta con i piedi penzolanti dalla terrazza, guardando quel patio, ascoltando A Movie Script Ending, che è un pezzo che dice di cose che finiscono, per darmi da sola una colonna sonora, un addio a quell’estate un po’ così.
Poi ho preso un aereo, sono tornata a Milano, mi sono laureata, ho iniziato a lavorare nello spettacolo, mi sono licenziata, sono andata via di nuovo e tornata a Milano di nuovo, ho ripreso a lavorare nello spettacolo, che sembra comunque una cosa superficiale da dire, ma mi piace, e ogni tanto sono tornata a Lisbona, ma ora la gente che sta lì non si capisce bene a fare cosa inizia un po’ a disturbarmi, forse perché non li invidio più così tanto.
Il ragazzo non l’ho più visto, ma di recente qualcuno che l’ha sentito mi ha detto che sta a Roma, coltiva zucchine biologiche. Io continuo a spendere sempre troppo per gli occhiali da sole.
—
Roberta Marinovich lavora come costumista, soprattutto in televisione. Cura il blog Reparto Costumi. La potete trovare anche su Twitter.
—-