Ho trentadue anni. Qualche tempo fa, all’ennesimo capello bianco spuntato sulla mia tempia e freneticamente coperto spostando un po’ più in là la scriminatura, mi sono arresa all’evidenza: ho smesso di crescere e ho cominciato a invecchiare.
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Da adolescente vivi in una tribù che nutre grande rispetto nei confronti degli anziani. Non quelli veri: gli adolescenti più anziani. Alle medie chiunque ostentasse i simboli esteriori della maturità veniva guardato dai gregari con ammirazione tutto sommato immeritata; già solo essere alti poteva essere sufficiente. Mantenere la minima traccia di infantilismo era la morte sociale. Mi faccio tenerezza da sola quando penso al diario segreto che cominciai a tenere in prima media - era una cosa cinese con la carta sottilissima, che aveva un odore tutto particolare - e alla dichiarazione d’intenti che scrissi nelle prime pagine: che non avrei cominciato a comprare Cioè, che non sarei diventata un’ochetta sospirosa di fronte al primo ganzo in motorino che passava, eccetera. Tempo un anno, un anno e mezzo, e dalla calligrafia semimaschile che avevo ero arrivata a sostituire i puntini sulle i con delle vezzose x, avevo una cotta per un ripetente di un’altra classe che nemmeno sapeva esistessi, e Cioè non lo compravo solo perché c’era Magazine che costava meno e aveva più pagine. Oh, e non apriamo la parentesi su come ci modellassimo la frangia stile Donna Martin: architetture antigravitazionali sorrette dall’abuso di gel, lacca, ma anche di materiali alternativi come il bagnoschiuma non diluito.
Il processo di omologazione non fu un successo tale da inserirmi nel gruppo degli individui-alfa, e quando dalle medie passai alle superiori buttai con sollievo molte di queste sovrastrutture alle ortiche. La gerarchia di una scuola media di paese, in cui ci si conosce già dalle elementari se non dall’asilo, era stata sostituita dall’ambiente rilassato e, almeno in apparenza, un po’ cazzone di un liceo artistico nel capoluogo, dove essere “strani” era ben accetto se non incoraggiato. Un’altra forma di conformismo, ma meno perniciosa, o che comunque si adattava meglio a me e a chi avevo intorno, forse perché è il tipo di scuola che sceglie chi vuole farla, al di là di condizionamenti esterni e considerazioni pratiche. Soprattutto considerazioni pratiche. Il mio conto in banca lo sa bene.
Una cosa che non era cambiata era la soddisfazione nel sentirsi dare un annetto o due in più dagli sconosciuti. Diciotto era la parola magica, l’età perfetta che si ambiva a dimostrare o comunque a raggiungere. Non era cambiato nemmeno il rispetto nei confronti degli anziani della tribù. A noi di prima, quelli del quinto anno sembravano già adultissimi.
Arrivai alle vacanze tra prima e seconda superiore piena di aspettative per il rito iniziatico che stavo per affrontare. Sarebbe stata la mia prima vacanza senza i genitori; sarei stata ospite dai miei zii in una Prestigiosa Località Balneare dove loro avevano un appartamento per ragioni che non avevano a che fare né col prestigio né con la balnearità, insieme a mia cugina, che ha quattro anni più di me e che, durante l’infanzia e buona parte dell’adolescenza, per me è stata un punto di riferimento. Molte delle cose che sapevo sul mondo di “quelli più grandi” me le aveva riferite lei, che riusciva ad ammantare di un’aura eccitante e fascinosa anche il passaggio dalla cartella di Snoopy allo zaino dell’Invicta. In sostanza, quella sarebbe stata non tanto la vacanza da mia zia quanto quella con mia cugina: in giro insieme in motorino, i ritmi delle giornate dettati dalla necessità di un approccio scientifico all’abbronzatura, e per finire, la compagnia del muretto (che io a casa non avevo né avrei mai avuto; come il motorino, il che mi fa pensare che forse le due cose siano correlate).
Ora che ci ripenso, avevo per la prima volta l’opportunità di sperimentare una versione della vita adolescente che avevo conosciuto soprattutto tramite la cultura pop: la vacanza al mare come luogo dell’anima dove tutto può succedere, in uno spazio compreso tra Edoardo Vianello, Lucio Battisti e sì, Brenda Walsh, sembrava un diritto inalienabile di qualsiasi ragazzo della mia età.
(Continua a essere in parte un mistero per me come mai la Prestigiosa Località Balneare sia a tutt’oggi prestigiosa. Il paesaggio è bello ma non immune dall’abusivismo edilizio, il centro non è più chic di quello di un qualsiasi paesotto in riva al mare, con in più un proprio piccolo sistema criminale che talvolta si è risolto in sparatorie tra clan e, mi dicono dalla regia, infiltrazioni camorristiche. Tuttavia continua a essere meta prediletta da vip e politici. Okay, forse la parte sui politici spiega anche quella sulle infiltrazioni camorristiche.)
Una figura chiave di questa storia - nonché l’unica di cui ricordi con certezza nome e cognome reali - era Roberto, che a quel tempo aveva diciotto anni e quindi, oltre che un ragazzo divertente e alla mano, era esattamente il tipo di persona che volevo frequentare: un anziano della tribù degli adolescenti. Aveva una moto 125 quasi del tutto priva di carenatura e dei pantaloni di vinile rossi. Ero uscita dall’epoca del ciuffo di Donna, Kelly e delle comparse di Non è la Rai, per entrare in quella dei pantaloni in vinile, mentre ci mettevo del mio prendendo come icona di stile qualsiasi band britpop venisse nominata di striscio su Rockstar: gli anni ‘90, signori.
Non mi ricordo come conoscemmo Roberto, forse proprio alla compagnia del muretto, che contava un numero imprecisato di persone dai quindici ai, boh, venticinque anni? Alcuni mi sembravano parecchio grandi, ma allora chiunque fosse più grande di me mi sembrava molto più grande di me. Tra loro c’era anche una ragazza che chiameremo Aurora – venni informata prontamente che lei si faceva di ecstasy ed era stata con metà dei ragazzi della compagnia, e al tempo non avevo ancora abbastanza esperienza da registrare come queste note introduttive sulla promiscuità sessuale se le becchino nel 90% dei casi le donne. Ma ricordo bene questa scena di lei che litigava col fidanzato, piangendo e strattonandolo, mentre lui rideva come per dire: qualunque problema ci sia, ce l’hai solo tu. Credo che poi lui se ne fosse ripartito in scooter lasciandola lì. Le grandi litigate con crisi emotiva in pubblico mi turbano sempre; un paio di anni più tardi avrei visto una mia compagna di classe fare la stessa cosa col fidanzato e poi finire in ospedale perché si era stressata tanto litigando con lui da collassare, o almeno questa era la motivazione che lei dava.
Fatto sta che conosciuto Roberto la compagnia del muretto fu presto abbandonata per quella del BARETTO.
No, questa non è la storia della mia prima sbronza, quella sarebbe arrivata come un treno in corsa un paio di anni dopo alla festa di compleanno di una mia compagna di classe. Il baretto era un baracchino nascosto nella pineta che separava la PLB dal litorale, e non era una pineta ordinatina dove parcheggiare il camper, ma una riserva naturale incolta che è uno dei grandi punti a favore della PLB. Questa baracca serviva quasi solo Peroni da 66 cl, che Roberto aveva soprannominato “la birretta ignorantella” perché prediletta da muratori e manovali. La bevevamo ai pochi tavoli parcheggiati là davanti, sotto la luce di un paio di fili di lampadine appese tra un pino marittimo e l’altro.
C’era un bagno dietro a una parete di bambù, ma non ricordo come fosse; ero ancora una birraiola da peso piuma, oppure la mia vescica funzionava meglio, o una combinazione di entrambe le cose. Forse era solo la prova che mia cugina, malgrado mi stesse facendo da cicerone nel mondo del rientro-dopo-mezzanotte e della libertà di movimento dataci dal suo Booster, prendeva molto sul serio le sue responsabilità di sorella maggiore putativa. Non tornammo mai a casa più che brille, vidi rollare un numero imprecisato di canne ma non ne fumai nemmeno una perché non ne fumava nemmeno lei (non so se per scelta o perché non voleva dare il cattivo esempio; in tal caso mostrando molto più rigore di quanto ne avrei avuto io al posto suo), e mi impedì di andare ad appartarmi con un ragazzo più grande e molto carino che ci stava provando con me. Premura, quest’ultima, riguardo alla quale ho ancora un’opinione ambivalente: da una parte aveva probabilmente fatto bene a tenermi lontana da quel fattone, dall’altra è stata l’inizio di una lunga serie di episodi nella mia vita in cui, anche al netto di tutte le volte in cui mi sono data la zappa sui piedi da sola, il COCKBLOCK l’ha fatta da padrone; e quindi non posso non pensarci con una certa frustrazione.
(Vorrei usare un equivalente italiano di “cockblock” ma non mi sembra che esista; diciamo che rappresenta quelle situazioni in cui qualcosa o specialmente qualcuno si frappone tra voi e l’opportunità di fare sesso, o almeno di arrivarci vicino. Per esempio, quando tu stai rimorchiando e la tua amica già impegnata, che deve tornare in macchina con te, ti dice: “dai, andiamo a casa”. Insensibile al fatto che mentre lei ha l’equivalente metaforico di un frigo pieno ad aspettarla nella sua cucina, tu vivi una vita in cui tenti di procacciarti il cibo con strumenti di selce e ossidiana, lottando contro tigri dai denti a sciabola in un ambiente inospitale. Senza elettricità, figuriamoci il frigorifero.)
Dicevo. Forse ricordo questa cosa con un certo disappunto perché nello spazio di quella vacanza mia cugina invece intrecciò una liaison (o, come diciamo noi giovani, “si faceva le storie”) con un amico di Roberto che a sua volta faceva parte della compagnia del baretto. Lui, Pietro, era piuttosto benestante perché suo padre aveva fatto i soldi vendendo brevetti, e una sera andammo a casa sua dove aveva un seminterrato adibito alle feste con tanto di console da deejay professionale. Roberto si esaltò tantissimo a mettere i dischi e poi a mostrarci un passo di danza inventato da lui, che consisteva nel saltellare da un piede all’altro. La particolarità di Pietro, d’altronde, era che si fumava un sacco di canne ma aborriva le sigarette e… basta. Era biondo. Tutto considerato mi stava un po’ sul cazzo e probabilmente lui vedeva in me il suo personale cockblock, quindi la cosa era reciproca.
In quella vacanza vidi gente rimorchiare, stonarsi e ubriacarsi, senza per questo fare nessuna di queste cose in prima persona; ero, comunque, parte della cerchia di quelli che rimorchiavano, fumavano e si ubriacavano, accettata dal consiglio degli anziani.
Mancava un ultimo tassello per completare l’esperienza estiva da manuale: la festa in spiaggia. Si materializzò quando Roberto ci invitò, dicendo che era per il compleanno di una ragazza della compagnia del muretto, non sapeva bene nemmeno lui chi. Una festa molto particolare dove saranno invitati tutti, molti amici, molti nemici, e anche Panino.
C’era molta gente, abbastanza birra, forse della musica, e io indossavo una felpa dell’Adidas anni ‘70 ereditata da mio padre e che era il mio orgoglio. Dopo un po’ persi di vista mia cugina - penso si fosse allontanata con Pietro - ma ero abbastanza brilla da sentirmi a mio agio anche da sola, anche se non abbastanza da andare a fare il bagno di mezzanotte in biancheria intima, se non nuda. Mi stesi sulla sabbia con la mia Peroni, parlai con Roberto, forse con altra gente a caso, finché non uscirono dall’acqua quelli del bagno di mezzanotte. Tra cui Aurora.
A un certo punto della serata avevamo scoperto che il compleanno era il suo. Qualcuno aveva commentato che tutta la compagnia era alla festa, ma nessuno era davvero suo amico, e io la guardavo affascinata mentre, gocciolante, si asciugava alla meno peggio insieme a un piccolo capannello che le stava attorno. Che una persona potesse conoscere ed essere conosciuta da un sacco di gente, e tuttavia venire derisa alle proprie spalle perché non aveva amici, metteva in crisi la mia idea, fino ad allora consolidata, che la popolarità si misurasse con la forza dei numeri.
Per quanto fosse piena estate, di notte faceva comunque fresco, e Aurora si mise a chiedere se c’era qualcuno che potesse accompagnarla dietro le dune per fare la guardia mentre si cambiava. Io a quel punto avevo bisogno del gabinetto, per cui mi feci avanti. La verità era che quella ragazza più di tutto mi incuriosiva, anche se le ragioni mi sono chiare solo ora che ci ripenso per la prima volta dopo moltissimo tempo. Aurora era la punta estrema del tipo di vita a cui un po’ ambivo, un po’ mi accontentavo di assistere; così estrema da essere uscita dalla categoria degli individui-alfa ed essere diventata degna di biasimo - non perché troppo bambina, troppo provinciale, troppo poco attraente, ma perché aveva sfondato l’altro lato del misuratore.
Le feci da palo mentre si metteva della biancheria asciutta e un vestito - l’avevo sempre vista con queste cose damascate, in viscosa, un po’ hippy un po’ Courtney Love prima maniera - e lei aspettò me mentre facevo pipì. Questo mi sembrò creasse una specie di intimità estemporanea tra di noi, un po’ come aspettare fuori dello studio del medico o di un professore prima dell’esame, o rifugiarsi da un acquazzone sotto un chiosco della birra con una cinquantina di austriaci che cantano in coro canzoni tradizionali prima di un concerto dei Rammstein.
– Complimenti per la festa – , dissi ad Aurora prima di uscire dalla nostra toilette improvvisata. – Quanti anni compi?
– Quattordici – , mi disse lei, con candore. – E tu quanti anni hai?
Sono, a tutt’oggi, molto orgogliosa della noncuranza con cui le risposi mentre dentro di me pensavo: CAZZO. – Quindici tra poco.
– Sembri più grande!
– Grazie… Anche tu – , le dissi, frastornata. Ero sicurissima che di anni ne avesse almeno diciotto, e invece ne aveva uno in meno di me che li avrei compiuti alla fine di quella stessa estate. Quando diventi grande, nel senso anagrafico del termine, non ci caschi più e gli adolescenti ti appaiono inevitabilmente piccoli, tutti; ma per come la ricordo, lei forse mi trarrebbe in inganno ancora oggi. Aurora era riuscita, intenzionalmente o no, a passare per un’anziana della tribù; e mi resi conto che forse non era quello che volevo. C’era qualcosa di triste in quella patina di maturità, volontaria o meno, che colorava la sua figura, i suoi comportamenti. Esteriormente, era una donna, anche e soprattutto nel fisico - io avevo messo su delle forme, ma guardando ora le foto di quel periodo non c’è il minimo dubbio che si trattasse ancora di un work in progress - eppure in quel momento pensai: è piccola. È piccola proprio perché sembra grande. La cosa mi turbò parecchio, e quando ci salutammo fuori dalle dune ritrovai presto mia cugina.
– Lo sai che Aurora oggi compie solo quattordici anni? Credevo fosse molto più grande – , le dissi, impaziente di condividere la mia scoperta.
Lei sembrò meno colpita dalla notizia. Credo mi abbia risposto qualcosa come: per forza, con la vita che fa. Andammo a casa poco più tardi.
Se questa fosse una storia di finzione, direi che l’incontro con Aurora cambiò drasticamente la mia prospettiva su cosa significasse veramente “crescere”. In realtà, se lo fece, fu in una maniera sottile che mi appare evidente oggi più di allora. È anche vero che, per quanto fastidio mi diano QUESTI CAZZO DI CAPELLI BIANCHI non tornerei indietro di quindici e nemmeno di dieci anni. Ecco, magari tornerei indietro nel tempo per dare una sberla sul coppino alla me stessa più giovane e dirle di farsi meno paranoie, oltre a dissuaderla dal comprare quegli occhiali rotondi alla John Lennon.
Se questa fosse una storia di finzione, potrei anche trarre la facile conclusione che ciò che spingeva Aurora a essere così com’era era che anche lei confondeva la quantità con la qualità dei rapporti, e che pur di non sentirsi sola ricercava qualsiasi attenzione, anche quella di gente che non la rispettava. La verità è che non la conoscevo affatto e chissà che motivi aveva, se ne aveva. Come diceva il Freddo, “ognuno c’ha li cazzi sua”.
Se questa fosse una storia di finzione - e a questo punto mi sembro Lucarelli in Blu Notte; esigo sagome di cartone sullo sfondo – ci sarebbe un malinconico epilogo, e qui direi che ci siamo, perché l’anno seguente tornai nello stesso posto, sempre ospite di mia cugina, sempre nello stesso periodo, ma non fu la stessa cosa. Non ritrovammo nessuno degli amici dell’anno precedente, a parte una sera in cui riuscimmo a uscire con Roberto. Il baretto era chiuso, iniziai e finii Insomnia di Stephen King in spiaggia, alla radio girava Lovefool, e io ero bionda, residuo di una tinta rosa lasciata sbiadire prima nell’arancione e poi nel giallo pannocchia. Visti i miei capelli neri e un fenotipo non scandinavo, la chiamerei una sconsiderata scelta di gioventù, di cui però non sono minimamente pentita (gli occhialini alla John Lennon, d’altronde). L’epilogo più triste in realtà arrivò un paio d’anni più tardi, parlando al telefono con mia cugina che era andata a vivere all’estero. Le era arrivata voce che Roberto, insieme a un suo amico, fosse finito in prigione, per qualcosa come furto d’auto. Non ricordo di preciso l’imputazione, solo che ci restai malissimo. Di Aurora non ho più avuto notizie. Ho dei dubbi anche su quale fosse il suo vero nome.
Comunque. Qualche tempo fa sono andata in un centro estetico a un paio di paesi dal mio. La ragazza che mi fa la ceretta, piccola città bastardo posto, una manciata di anni fa era stata la prima fidanzatina di mio fratello minore, anche se io non l’avevo mai conosciuta prima di affidarmi a lei come professionista della lotta al pelo superfluo. Alla fine le nostre chiacchiere di circostanza si limitano a qualche aggiornamento sui fatti del paese, e a lei che mi chiede come stia mio fratello. L’ultima volta, mentre mi spalmava cera calda in luoghi che di solito, oltre a me, vedono solo partner sessuali e medici, mi ha chiesto quanti anni di differenza ci fossero tra me e il fratellide.
- Otto – , le ho detto io.
Lei ha spalancato gli occhi in quello che era genuino (genuino) stupore: – sul serio? Credevo fossi molto più giovane!
Ho sorriso tronfia, improvvisamente dimentica di tutte le volte che mi hanno chiamata “signora” e io sono stata a tanto così dal dire “VEDI FORSE UN CAZZO DI ANELLO?” con la voce e anche un po’ la faccia di Samuel L. Jackson.
Alla me stessa di quindici anni, in un’altra dimensione spaziotemporale, è arrivata una sberla sul coppino.
(Scena dopo i titoli di coda: scrivendo questo pezzo mi è venuta la curiosità di cercare Roberto su Facebook e ha abbastanza post pubblici da farmi capire che è ingrassato e si è stempiato, abita sempre nella Prestigiosa Località Balneare, ha un lavoro, una compagna e un bambino piccolo e puccioso. Mi sembrava felice e spero davvero che lo sia.)
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Elisa Poggese disegna e talvolta riesce a farsi pagare per farlo. Bazzica un sacco di posti in rete ma i suoi preferiti sono il tumblr dei disegni e quello del cazzeggio. Ha anche un blog che si ripromette sempre di far risorgere a colpi di defibrillatore.