storia vera

Primo giorno di scuola, nove anni e nove mesi.

Arrivai alla scuola media Vittorio Alfieri a nove anni e nove mesi, con un ritardo di qualche giorno sull’inizio dell’anno scolastico. Provenivo dalle elementari di via della Libertà, che ora a dar retta a Google si chiamano Istituto Comprensivo n. 1. Le due scuole erano a poche centinaia di metri di distanza, sulla stessa via, per cui ricordo bene che nel tragitto in macchina verso la prima media pensai: «Che bello se adesso ci fermiamo prima e io scendo e me ne torno dalla maestra Marcella». Ma poi pensai anche: «Sono grande adesso, faccio le medie», e controllai con un certo orgoglio il contenuto dello zaino che odorava di plastica e della gomma profumata della scarpetta a fiori che avevo legato alla cerniera, un regalo. «Nella mia città ce l’hanno tutti», mi aveva detto mia cugina grande. Era immacolata, i colori nitidissimi, e così lo zaino, e l’astuccio di penne e colori, e la fodera trasparente con cui avevamo rivestito i libri. A casa mia non compravamo le foderine già pronte, quelle con la parte adesiva, ma le tagliavamo via via da un rotolo, e poi le adattavamo ai vari libri con scotch e abili piegature ad arte.

In classe non sapevo dove sedermi. Nessuna delle mie amiche delle elementari frequentava la mia sezione. I loro genitori avevano scelto il francese. I miei l’inglese. Tutti avevano già un compagno o facevano finta di averlo. Mi guardai le scarpe. Superga blu.

Alla fine mi misero vicino alla figlia di quello del baretto fuori dalla scuola, Scilanga Raffaella. Suo padre, avrei scoperto poi, era un uomo ben piazzato, butterato, un po’ untuoso. Lei era bionda, la faccia già invasa dall’adolescenza, il naso a patata. Con una mezza risatina che si poteva scambiare per un sorriso, tra la prima e la seconda ora mi martellò di domande a cui non sapevo rispondere in modo interessante. Vivo qui, sì, dopo la Standa. Mio padre è professore, sì, ma nell’altra scuola. Mia madre lavora nel paese vicino. Non sono venuta il primo giorno perché ero in montagna. No, non ce l’ho il fidanzato. No, mai avuto.

– E chi ti piace?

Ecco, finalmente, la risposta a effetto che cercavo. Ma temevo.

– Non te lo dico, è un segreto.

– Dai, non lo dico a nessuno, poi ti dico chi mi piace a me.

Dovevo rischiare, potevo rischiare. Nei film si vedeva sempre, che quando due donne diventavano amiche c’erano di mezzo i segreti.

– Paolo. Paolo Colonna.

Un anno e mezzo. Da un anno e mezzo guardavo Paolo Colonna colpire le palline da tennis. Entrava e usciva dal mio raggio visivo mentre mi allenavo col mio colpo preferito, il rovescio. Mi piaceva il momento in cui la mano sinistra lasciava andare il manico della racchetta e il braccio destro si librava in volo. L’estate seguente Monica Seles avrebbe vinto gli Internazionali di Francia e il rovescio a due mani sarebbe entrato nelle nostre vite, rovinandoci per sempre il baricentro. Nell’attesa, io me lo facevo rovinare da Paolo Colonna. La mia coda dell’occhio era tutta sua, votata a lui, al suo ciuffo biondo che ricadeva in avanti a ogni servizio. Tornavo a casa e mentre mia mamma cucinava io fantasticavo sul giorno in cui avremmo parlato per la prima volta. Era una fantasia calda, morbida, accogliente. Mi conteneva tutta.

– Carino! Ma lo sai che è nella classe qui vicino? Fa la seconda E.

Certo che lo so, per chi mi prendi.

– Ah, sì? Bello!

– E a lui gli piaci?

Oddio.

– Non lo so.

– Come non lo sai? Non ci hai parlato?

– No.

– Mai parlato?

– No.

Il prof di matematica mise i piedi sulla cattedra, si accomodò sulla sedia di legno come fosse una poltrona superlusso e con un fischio decretò la fine della nostra conversazione. Cominciai a sentire una certa ansia. Ascoltavo la lezione, ma mi sentivo osservata. Fissavo la porta chiusa dell’aula, di fronte al mio banco laterale. Nella mia testa tutto cominciava a mescolarsi e a perdere di senso. La montagna, il libro di avventura che mi aveva portato mia zia, i capelli lisci di quella del terzo banco, le suole del professore, i suoi occhi verdi, la gonna con cui giocavo a tennis che in realtà sotto la piega nascondeva un paio di pantaloncini, e poi perché non potevo comprare Cioè, perché Paolo non mi guardava, ma soprattutto dovevo dirlo o no, che sapevo la soluzione del problema alla lavagna?

Lo dissi. Mi fece alzare a scriverla. Il gesso non fece nessun rumore strano, e mi pareva di avere i pantaloni in ordine. Ma quando tornai a posto, mi sembrò che gli altri stessero ridacchiando.

A ricreazione nessuno mi chiese com’era la montagna. Avevo preparato un sacco di storie, ma in qualche modo sembrava che tra quelle quattro mura il nuovo attrezzo per raccogliere i mirtilli, il porcino gigante che aveva trovato mia nonna e la sala giochi del residence dove avevo fatto il mio record a Bubble Bobble non avessero alcun peso. Improvvisamente sentii di avere una valuta straniera tra le mani. Quella del terzo banco si spostava i capelli da una spalla all’altra, i maschi la guardavano. L’ora dopo si chiamava Educazione tecnica. Tornai al mio posto e guardai il verdolino scrostato del banco.

Scilanga Raffaella tornò in classe e dritta come un missile si venne a sedere.

– Gliel’ho chiesto, eh.

– Cosa? A chi?

– A Paolo!

La nostra aula era l’ultima in fondo al corridoio. Dalla porta vedevo gli alunni delle classi vicine che cominciavano a rientrare. Deglutii.

– Eh.

– Sì sì, ha detto che non gli interessi. Sei troppo piccola. Ma perché, quanti anni hai?

Mi sembrava di vedere doppio, doppia gonnellina corta, doppia balaustra della balconata, doppi jeans, doppio ciuffo biondo.

E dovevo fare la pipì. Avevo dimenticato di fare la pipì.

La prof entrò in classe, si richiuse la porta alle spalle salvandomi dalla gogna del corridoio. Sbattè la mano sulla cattedra, urlò come una vedova addolorata dal suo metro e cinquanta di altezza. Si chiamava Gesuina.

La pipì.

Come avevo fatto a dimenticarmi di andare in bagno?

Durante l’ora di tecnica, e poi quella di italiano, e poi l’ultima che non ricordo più, rimandai di minuto in minuto il momento di alzarmi. Mi sentivo paralizzata, cementata alla sedia, incapace di attivare i muscoli. E non era solo Scilanga Raffaella. Erano tutti. Tutti ormai sapevano della mia umiliazione. Tutti mi stavano guardando. E a nessuno importava niente del rastrellino per i mirtilli, nessuno aveva allo zaino la scarpettina profumata e nessuno rispondeva ai problemi di matematica, anche se li sapeva. E se poi chiedendo di andare in bagno mi avessero notata ancor di più? Le cose sarebbero sicuramente peggiorate. Mi avrebbero guardata, mi avrebbero scoperta, avrebbero capito che parlavo un’altra lingua. Avevo già rischiato molto. No, era meglio essere invisibile, non dare nell’occhio. Dovevo solo resistere, trattenere la pipì, farla a casa dove poi avrei dovuto tener duro per il tempo del pranzo, forse un pochino dopo, prima di seppellirmi finalmente nel letto e piangere perché mai più, ma proprio mai più, io e Paolo avremmo parlato per la prima volta. Irrigidii i muscoli delle cosce, chiusi gli occhi e pensai alla sala giochi, ai panini che facevano mia madre e mia zia la mattina presto, alle scale del residence. Mi chiesi perché alcune avessero i corrimano blu, altre rossi. Risentii il profumo della moquette appena ripassata con la scopa elettrica, chiusi gli occhi, mi rilassai solo per un istante.

Non risposi, quel giorno, a Scilanga Raffaella.

In compenso, per l’ultima volta nella vita, a nove anni e nove mesi, mi feci la pipì addosso.

Chiara Baffa traduce libri di narrativa e saggistica. Ha lavorato per anni nel mondo musicale indipendente, fondando una sua agenzia di promozione e concerti, Organetta. Per minimum fax ha curato Cosa volete sentire. Compilation di racconti di cantautori italiani.

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Photo Credit: Stéfan via Compfight cc