storia vera

La mia vita accanto a Damon Albarn.

damon albarn NME

 

Per esattamente metà della mia vita sono stata innamorata di Damon Albarn, non nel senso che gli avrei dato dei figli, questo perché non volevo una progenie, ma se ci fossimo trovati insieme in una stanza senza contraccettivi, o se la nostra religione ce lo avesse imposto, di figli gliene avrei dati.

Era successo tutto all’improvviso, mio padre ascoltava i Gorillaz su Radio Popolare, un giorno avevo aperto un vecchio numero di Rumore o Tribe (Tribe!) e, pem, eccolo lì, il compagno di classe che siede all’ultimo banco e di cui avevi visto tutti i videoclip e di cui ti accorgi in un tumulto di estasi al rallentatore e color correction violentissima. O così me la figuro – al tempo fu piuttosto un aggrottare la fronte e riflettere un secondo e galoppare nel corso di quindici minuti dalla fase “No, non sto cercando un altro fidanzato famoso” alla fase “sfogliare maniacalmente vecchie riviste e sentirsi mancare l’aria nel bisogno di sapere di più con un modem a 28.8 kbps”.

Damon Albarn è, a oggi, l’alfa e l’omega dei miei innamorati irreali, essendo giunto in seguito a una relazione duratura e affettuosa ma trascinatasi negli anni attraverso una serie di ritagli da TV Sorrisi e canzoni (il Dottor Carter di ER) e appena prima della fossa comune dell’ormone inesorabile e dei flirt poco durevoli dell’adolescenza (innumerevoli musicisti e attori irlandesi). Damon Albarn, per me, ha corrisposto all’apertura di Internet, all’ADSL, al magico mondo delle attese interminabili. L’11 settembre 2001 era il mio primo giorno di liceo e io ero a casa a scaricare da KaZaA il video di una versione acustica di Parklife. Avevo fallito due volte di seguito – l’anteprima al video tradiva contenuti pornografici – ma questo, di download, era quello buono. Anteprima di cinque secondi. Su MSN Messenger qualcuno mi aveva detto di accendere il televisore; avevo passato il messaggio a mia mamma. Anteprima di venti secondi. Mia mamma mi aveva chiamato di là dicendo «Guarda che qua sta succedendo il manicomio».

C’è stato un tempo in cui mi avvicinavo a Damon Albarn, noncurante di tutto, per vivacità e inesperienza, poi c’è stato un tempo in cui gli facevo il gesto di “ciao” e scattavo foto ad altre persone in posa con lui – ero l’amica navigata e in fin dei conti non molto interessata che va ai concerti. In verità mi cagavo in mano.

Questo è un resoconto di tutte le volte che avrei potuto parlargli.

 

Nel 2003, fuori dall’Astoria, a Londra, i Blur andavano e venivano in taxi durante le prove. Graham Coxon non era più nel gruppo, allora, ma la sua mancanza veniva compensata dal fatto che tutti volevano vedere i Blur dal vivo, e adesso.

Facevamo la fila dalle due del pomeriggio, i membri del gruppo si manifestavano più o meno ogni volta che andavo a pisciare di straforo in un negozio di dischi all’incrocio con Tottenham Court Road.

La prima sera, all’Astoria, il pubblico pigiava troppo e io persi i sensi all’inizio di “On the Way to the Club” per risvegliarmi sul finale di “On the Way to the Club” al di là della transenna, seduta sulla sinistra del palco. Non ero mai stata così felice.

All’uscita intravidi la nuca di Alex James mentre una sarda con l’accento semitedesco si bullava con il mio gruppo di amiche di aver fatto l’impronunciabile. «Ho toccato le palle di Dèmon». «Sono gràààndi». Per la prima volta, la mia invidia del fan veniva sostituita dall’indifferenza del fan. La sera successiva la passai in balconata, seduta di fronte a mio papà e a un signore compunto e molto educato. Credetti che Damon Albarn gesticolasse verso di me, che ero direttamente in linea d’aria con il suo sguardo. Probabilmente non lo faceva. Al concerto di Milano di cinque giorni dopo mia mamma mi diede dello zucchero nell’evenienza di una crisi ipoglicemica.

A novembre avevo già molti autografi, raccolti tutti a testa bassa e senza fiatare non fosse per un «fenks», e avevo tolto l’apparecchio, non che fossi questo fiore nell’atto di sbocciare. Passammo la prima mezz’ora dopo il concerto a spiegare a Guy Garvey degli Elbow come si traducesse in inglese ‘W la figa‘, e io sfidai gli dèi della mononucleosi bevendo dalla sua lattina di birra. Poi corse in fretta la voce che i Blur si stavano muovendo: sarebbero stati trasportati a un aftershow all’Hollywood. Al tempo la mia idea di discoteca era quella sala da ballo in cui andava mio fratello al campeggio del mare, e avevo a malapena familiarità con il concetto di “Hollywood”. Ma ci precipitammo lì, con mia mamma che guidava l’auto, e un PR, presumibilmente divertito dall’ironia di un gruppo di quattro persone in giacconi a vento, capelli unti e magliette giganti che si reca all’Hollywood, ci fece entrare a un prezzo di favore, e subito. Io rimasi dentro intorno ai tre, quattro minuti perché mi facevano male gli occhi e non avevano mai visto tante persone limonare in vita mia, figuriamoci persone che limonano altre persone che limonano altre persone. L’avevo sentito in “Girls & Boys”, ma non mi pareva fosse plausibile.

Mia mamma, nel frattempo, si era accorta delle signorine nude che ballavano in vetrina fuori dall’Hollywood e aveva allertato la sicurezza, minacciandoli e usando la parola “minorenne”. La nostra riconciliazione fu grosso modo lieta.

Il 2007 fu l’anno in cui “Damon Albarn mi donò parte della sua sigaretta”, il cui filtro conservo ancora nella busta della carta di identità, dove mi piace pensare che un tempo ci fosse il mio cuore, e ora giusto un po’ di odore di muffa. In quel momento tutti si facevano le foto con lui, e io pensavo fosse meno importuno sorridere, scattargli le foto, e fargli ciao con la mano. Avrebbe apprezzato di più, mi dicevo. Alla fine dei conti, penso ancora che non mi farei una foto con Damon Albarn a meno che non me lo chiedesse lui; ho cambiato opinione rispetto al figlio.

Nel 2009 i Blur sono tornati insieme e noi abbiamo deciso di andare nell’Essex, tra una sequenza di negozi di abiti da sposa e di castelli normanni meglio conservati d’Inghilterra. Non avevamo nemmeno il biglietto del concerto. Il locale era uno stanzone da cento persone nel mezzo di un museo ferroviario poco distante da Colchester i cui unici poli di civiltà sono una stazione dei treni semidimenticata, un pub chiamato “The Swan” e un ufficio postale. I Blur avevano suonato lì in uno dei loro primi concerti, nel 1989. Lì c’erano i genitori dei Blur, i nipoti dei Blur, e i figli dei Blur che guardavano perplessi gli sparuti gruppi di fan chiedendosi come mai ci sia da dimenarsi così tanto per un quartetto di zii e babbi imbolsiti. La confusione generale ci permise l’accesso.

Quella volta, secondo me, mi gesticolò davanti intenzionalmente, Damon Albarn. Più tardi quell’anno, a un altro concerto, una cinese sconosciuta mi disse, – Sei quella nel video live di Beetlebum! Damon ti suona la chitarra! – . Ero una celebrità.

Per non sapere né leggere né scrivere, quando mi suonò la chitarra davanti, mi ritrassi in imbarazzo. Quella notte, a Colchester. Damon Albarn fece anche stage diving e mi diede una pedata in testa, e a un certo punto del concerto sono piuttosto sicura che se ne venne nei pantaloni.

Nel 2010 Damon Albarn mangiava cinese da un contenitore in alluminio su una scala di emergenza fuori dal concerto dei Gorillaz. Questo è il nostro piccolo segreto.

Una sera passammo mezz’ora fuori dalla casa di Damon Albarn, a Londra, meditando se fosse una buona idea lasciargli un biglietto con scritto di cambiare setlist, una volta ogni tanto, per favore, con tutto l’amore del mondo. Decidemmo di non farlo. Mi è capitato di viverci, a Londra, e neanche a farlo apposta, per quasi un anno, il mio autobus passava di fronte alla casa di Damon Albarn. Poco dopo ha traslocato.

Nel 2012 guardavo solo il mio accompagnatore e insieme guardavamo il palco e cantavamo i controcanti di Graham Coxon. Eravamo nell’ultima cittadina di separazione tra il Kent e il Mare del Nord, e l’ultimo treno era poco dopo le ventidue. Passammo parte della notte in stazione, finché non si presentò il signore della stazione a dire «Fuori tutti, ora chiudiamo», al che ci trasferimmo in una cabina telefonica e il mio accompagnatore iniziò a fare scherzi telefonici al numero verde della British Airways. Ero certa che da un momento all’altro la polizia ci avrebbe arrestati.

Nel 2013 la stessa situazione, la medesima setlist, ma con le zanzare che mi massacravano le gambe. A un certo punto una coppia di coppie che parlavano solo dei propri figli mi offerse dell’Autan, e Damon Albarn era in forma e sembrava più giovane, e io, devastata dalle punture, ero molto più vecchia di lui.

Ce l’avevi fatta finalmente, Damon Albarn, a trovare un ritratto che invecchiasse per te. Del compromesso eravamo ben felici entrambi.

Eppure l’origine della nostra mancanza di comunicazione risale al 2002. Avevo trascorso tutto il concerto seduta nel pubblico accanto a Dave Rowntree, cercando di applaudire a tempo con lui perché ( – Lui è un batterista, sa cosa fare – ) .

Un’anima santissima mi aveva offerto, alla fine del set, un lasciapassare per scendere al rinfresco. Era un pass artisti, argentato come lo sanno essere solo gli artisti. Potevo scendere solo io. Stringevo il mio raccoglitore dei ritagli dei Blur. Presentivo l’odore del mio primo autografo. (Secondo, dopo quello di Dave Rowntree).

Gli artisti, al piano di sotto, si divertivano. Mi sentivo rumorosa come una casa che si assesta. Era il mio momento. Damon Albarn era in fondo alla stanza in canottiera, grasso come non lo era mai stato, con le braccia pallide. Era una visione incantevole. Finsi un malore e tornai su.

 

Laura Spini scrive per Vice e Rivista Studio. Traduce racconti e siti web. L’unico romanzo che ha tradotto èPlayer One. Sporadicamente aggiorna Tumblr dei morti. Non è la sua omonima su Google vittima del raggiro di una santona.